Al popolo di Venezia
(4 giugno 1923)


      Il 4 giugno il Duce disse a Venezia, nella Sala del Gran Consiglio, le seguenti parole:

      Veramente il luogo sacro e memorabile e il discorso alato pronunciato testé dal primo magistrato della Serenissima mi consiglierebbero l'assoluto silenzio.
      Ma io non vi infliggerò un discorso. La più profonda eloquenza è oggi nelle cose, nei fatti, in questa sublime e quasi leggendaria realtà, della quale siamo insieme e spettatori e protagonisti. Realtà che si esprime dalla superba parata di stamane; che si esprime dalle truppe del gloriosissimo Esercito di Vittorio Veneto che è stato dal '70 ad oggi il potente crogiolo della razza italiana; che si esprime dal passo energico e ritmico dei marinai che attendono ancora cimenti e glorie.
      E si esprime ancora dalle squadre delle Camicie Nere, dalla nuova Milizia, la quale non è ormai più l'espressione di un partito, ma è realmente una creazione della coscienza nazionale, che non ammette ritorni dacché ha aperto innanzi a sé la strada luminosa dell'avvenire.
      E si esprime infine dalle migliaia e migliaia di bambini il cui spettacolo poco fa mi commoveva fino alle lacrime. Sono essi la primavera della nostra stirpe, l'aurora della nostra giornata, il segno infallibile della nostra fede.
      Altri popoli invidierebbero e invidiano questa Nazione proletaria, prolifica e intelligente, saggia, laboriosa, serrata in una piccola e divina penisola, troppo angusta ormai per la nostra razza.
      Tutti gli italiani della mia generazione sentono l'angustia del nostro territorio, in cui tutti ci conosciamo, dalle Alpi alla Sicilia. Per cui se sogniamo talvolta di poterci espandere, ciò è espressione di una realtà storica ed immanente: un popolo che sorge ha dei diritti di fronte ai popoli che declinano. E questi diritti sono incisi a caratteri di fuoco nelle pagine del nostro destino.

(segue...)