(segue) I primi sei mesi di Governo
(8 giugno 1923)
[Inizio scritto]

      Avrei finito, anzi ho finito, se non dovessi dire ancora una parola che mi riguarda un po' personalmente. Io non nego ai cittadini quello che si potrebbe chiamare il jus murmurandi, ma non bisogna esagerare, non bisogna essere con le orecchie ritte, nella tema di pericoli che non esistono, e, credetemi, io non mi ubriaco di grandezza; vorrei, se fosse possibile, ubriacarmi di umiltà. E credete ancora, onorevoli senatori, che non mi passa nemmeno per la controcassa dell'anticamera del cervello quello che può balenare nei crocchi misteriosi, pieni di sospetti, di paure e calunnie. Io mi contento semplicemente di essere ministro; nessuno deve essere spaventato dal fatto che io vado a cavallo. Ci andavano anche D'Azeglio e Minghetti; e del resto se ciò si deve alla mia gioventù, questo è un male divino di cui si guarisce ogni giorno. Non ho ambizioni che oltrepassino la cerchia nettamente definita dei miei doveri e delle mie responsabilità.
      Eppure, un'ambizione l'ho anch'io: più conosco il popolo italiano, più m'inchino dinanzi a lui; più m'immergo anche fisicamente nelle masse del popolo italiano, più sento che questo popolo italiano è veramente degno del rispetto di tutti i rappresentanti della Nazione.
      La mia ambizione, o signori, sarebbe una sola: non m'importa per questo di lavorare 14 o 16 ore al giorno, non m'importerebbe nemmeno di lasciarci la vita, e non lo riputerei il più grande dei sacrifici! La mia ambizione è questa: vorrei rendere forte, prosperoso, grande e libero il popolo italiano!