(segue) Discorsi di Firenze
(19 giugno 1923)
[Inizio scritto]

      Io vi dico che l'Italia riprende. Due anni fa, quando imperversava la bestialità della demagogia rossa, partirono per la Coppa Baracca, in onore del nostro purissimo Cavaliere dell'aria, soltanto 20 apparecchi, l'anno scorso 35, quest'anno 90, sinora, e come abbiamo riconquistato il dominio del cielo, vogliamo che il mare non sia una cintura contro la nostra vitalità, ma invece la strada per la nostra necessaria espansione nel mondo.
      Questi, o fascisti, o cittadini, sono i compiti grandiosi che ci attendono. E non falliremo a questa meta se ognuno di voi scolpirà nel cuore le parole in cui si riassume il comandamento di quest'ora ineffabile della nostra storia di popolo: il lavoro che a poco a poco ci deve riscattare dalla soggezione dell'estero, la concordia che deve fare degli italiani una sola famiglia, e la disciplina per cui a un dato momento tutti gli italiani diventano uno e marciano insieme verso la stessa meta.
      Camicie nere, voi sentite che tutte le manovre degli avversari tendenti a separarmi da voi sono ridicole e grottesche.
      Il Fascismo — e qui non vi sembri peccato di orgoglio la constatazione — io l'ho guidato sulle strade consolari di Roma e Roma è nel nostro solido pugno: e se qualcuno si facesse delle illusioni al riguardo, io non avrei che da fare un cenno, che da alzare un grido, che da dare una parola d'ordine: «A noi».
      Levate in alto i vostri gagliardetti; essi sono consacrati dal purissimo sangue dei nostri morti, e quando una fede è stata consacrata dal sangue vermiglio e giovinetto, non può fallire, non può morire e non morrà.
      Camicie nere! A chi il combattimento?
      (Una voce unanime si leva dalla piazza ed un solo grido si ode: A noi!).
      A chi la gloria?
      (A noi!).
      A chi Roma?
      (A noi!).
      A chi l'Italia?
      (A noi!).
      E così sia.

(segue...)