(segue) Preludio al Machiavelli
(30 aprile 1924)
[Inizio scritto]
Gli uomini, secondo Machiavelli,
sono tristi, più affezionati alle cose che al loro stesso
sangue, pronti a cambiare sentimenti e passioni. Al Capitolo XVII del
Principe, Machiavelli così si esprime: «Perché
delli uomini si può dire questo generalmente: che siano
ingrati volubili simulatori, fuggitori de' pericoli, cupidi di
guadagno e mentre fai loro bene, sono tutti tuoi, offerenti il
sangue, la roba, la vita, i figlioli, come di sopra dissi, quando el
bisogno è discosto, ma quando ti si appressa, e si
rivoltano... E quel principe che si è tutto fondato sulle
parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina. Li uomini
hanno meno rispetto a offendere uno che si faccia amare, che uno che
si faccia temere, perché l'Amore è tenuto da uno
vincolo di obbligo, il quale per essere li uomini tristi, da ogni
occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è
tenuto da una paura di pena che non abbandona mai.» Per quanto
concerne gli egoismi umani, trovo fra le Carte varie, quanto segue:
«Gli uomini si dolgono più di un podere che sia loro
tolto, che di uno fratello o padre che fosse loro morto, perché
la morte si dimentica qualche volta, la roba mai. La ragione è
pronta; perché ognuno sa che per la mutazione di uno stato,
uno fratello non può risuscitare, ma e' può bene
riavere il suo podere.» E al capitolo III dei Discorsi: «Come
dimostrano tutti coloro che ragionano del vivere civile e come ne è
prenia di esempii ogni storia, è necessario a chi dispone una
Repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli uomini
essere cattivi e che li abbiano sempre a usare la malignità
dell'animo loro, qualunque volta ne abbino libera occasione... Gli
uomini non operano mai nulla bene se non per necessità, ma
dove la libertà abbonda e che vi può essere licenzia si
riempie subito ogni cosa di confusione e di disordine.»
Le citazioni potrebbero
continuare, ma non è necessario. I brani riportati sono
sufficienti per dimostrare che il giudizio negativo sugli uomini, non
è incidentale, ma fondamentale nello spirito di Machiavelli. È
in tutte le sue opere. Rappresenta una meritata e sconsolata
convinzione. Di questo punto iniziale ed essenziale bisogna tener
conto per seguire tutti i successivi sviluppi del pensiero di
Machiavelli. È anche evidente che il Machiavelli, giudicando
come giudicava gli uomini, non si riferiva soltanto a quelli del suo
tempo, ai fiorentini, toscani, italiani che vissero a cavallo fra il
XV e il XVI secolo, ma agli uomini senza limitazione di spazio e di
tempo. Di tempo ne è passato, ma se mi fosse lecito giudicare
i miei simili e contemporanei, io non potrei in alcun modo attenuare
il giudizio di Machiavelli. Dovrei, forse, aggravarlo. Machiavelli
non si illude e non illude il Principe. L'antitesi fra Principe e
popolo, fra Stato e individuo è nel concetto di Machiavelli
fatale. Quello che fu chiamato utilitarismo, pragmatismo, cinismo
machiavellico scaturisce logicamente da questa posizione iniziale. La
parola Principe deve intendersi come Stato. Nel concetto di
Machiavelli il Principe è lo Stato. Mentre gli individui
tendono, sospinti dai loro egoismi, all'atonismo sociale, lo Stato
rappresenta una organizzazione e una limitazione. L'individuo tende a
evadere continuamente. Tende a disubbidire alle leggi, a non pagare i
tributi, a non fare la guerra. Pochi sono coloro — eroi o santi
— che sacrificano il proprio io sull'altare dello Stato. Tutti
gli altri sono in istato di rivolta potenziale contro lo Stato. Le
rivoluzioni dei secoli XVII e XVIII hanno tentato di risolvere questo
dissidio che è alla base di ogni organizzazione sociale
statale, facendo sorgere il potere come una emanazione della libera
volontà del popolo. C'è una finzione e una illusione di
più. Prima di tutto il popolo non fu mai definito. È
una entità meramente astratta, come entità politica.
Non si sa dove cominci esattamente, né dove finisca.
L'aggettivo di sovrano applicato al popolo è una tragica
burla. Il popolo tutto al più, delega, ma non può certo
esercitare sovranità alcuna. I sistemi rappresentativi
appartengono più alla meccanica che alla morale. Anche nei
paesi dove questi meccanismi sono in più alto uso da secoli e
secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla
al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli
si strappano le corone cartacee della sovranità — buone
per i tempi normali — e gli si ordina senz'altro o di accettare
una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l'ignoto di una
guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e
obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente
al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il
bisogno. Gli viene lasciata solo quando è innocua o è
reputata tale, cioè nei momenti di ordinaria amministrazione.
Vi imaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum
va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più
acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli
interessi supremi di un popolo sono in giuoco, anche i governi
ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del
popolo stesso. V'è dunque immanente, anche nei regimi quali ci
sono stati confezionati dalla Enciclopedia — che peccava,
attraverso Rousseau, di un eccesso incommensurabile di ottimismo —
il dissidio fra forza organizzata dello Staio e il frammentarismo dei
singoli e dei gruppi. Regimi esclusivamente consensuali non sono mai
esistiti, non esistono, non esisteranno probabilmente mai. Ben prima
del mio oramai famoso articolo «Forza e consenso»
Machiavelli scriveva nel Principe, pagina 32: «Di qui nacque
che tutti i profeti armati vincono e li disarmati ruinarono».
Perché la natura dei popoli è varia ed è facile
persuadere loro una cosa, ma è difficile fermarli in quella
persuasione. «E però conviene essere ordinato in modo,
che quando non credono più si possa far credere loro per
forza. Moise, Ciro, Teseo, Romolo non avrebbero potuto fare osservare
lungamente le loro costituzioni, se fussino stati disarmati.»
(segue...)
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