(segue) Al popolo dell'Aquila
(12 ottobre 1924)
[Inizio scritto]
Voi mi domandate come saneremo
questa contraddizione. Poiché il contrasto voi lo afferrate
nei suoi elementi drammatici. Si dice che noi siamo un esercito
accampato nella Nazione, che noi governiamo contro la volontà
del popolo italiano. Si dice che se il popolo potesse esprimere
liberamente la sua voce, questa sarebbe di rampogna o di condanna.
Ebbene, noi lo abbiamo consultato questo popolo, siamo andati verso
questo popolo, continuamente.
Perché siete qui? C'è
forse qualcuno che vi ha costretti, che vi ha imposto di venire in
questa piazza? Siete venuti perché la vostra volontà ve
lo ha detto, perché avete obbedito alla vostra coscienza.
Non voglio abusare della vostra
attenzione anche perché so che molti di voi sono venuti da
lontani paesi, forse a piedi. So che le vostre case vi chiamano.
Ebbene, sono due anni che teniamo
la Nazione, sembra ieri: e pure il corso del tempo non apparve mai
così breve. Abbiamo lavorato, abbiamo fatto molte cose,
abbiamo dato savie leggi al popolo italiano; adesso veniamo incontro
a questo popolo per alleggerirgli i pesi, per rendergli più
prospera la vita, per cercare di aumentare il suo benessere, per
elevarlo sia moralmente che intellettualmente. È facile
dimenticare, troppo facile. Ho già detto che è umano
dimenticare il tempo delle miserie, mentre altrettanto umano è
ricordare le epoche delle felicità. Ma noi, che abbiamo la
responsabilità suprema, non possiamo, non dobbiamo
dimenticare; non dobbiamo dimenticare l'epoca in cui un solo giornale
usciva in Roma ed usciva solo per settanta giorni. Questo giornale si
gettò sull'inchiesta di Caporetto con foia sadica, vilipese
gli ufficiali e i soldati, svalutò la Vittoria, sputò
su i feriti e i decorati. E si pensava di processare il generale che,
con un gesto di necessaria energia, aveva ristabilito la non meno
necessaria disciplina. (La folla grida: «Viva il generale
Graziarti!» ).
(segue...)
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