(segue) 4 Novembre
(4 novembre 1925)
[Inizio scritto]
Altezze! Eccellenze! Commilitoni!
Signori!
Voglio prima di tutto ringraziare
dal profondo del cuore i miei compagni dell'Associazione nazionale
tra mutilati ed invalidi di guerra. Essi mi hanno reso oggi un grande
onore, chiamandomi a parlare in questa celebrazione. Hanno inoltre
disperso un equivoco intorno al quale lavoravano in una vana
speculazione coloro i quali sono ormai ai margini del popolo
italiano.
Commilitoni! Quale discorso vi
attendete da me? Mi accade talvolta di leggere le anticipazioni dei
miei discorsi. È un esercizio del tutto singolare perché
io penso i miei discorsi nell'attimo in cui li pronuncio. Certo voi
non vi attendete da me un discorso di rettorica e di poesia: non vi
attendete da me un inno puro e semplice per il quale basterebbe un
coro oppure un'orchestra o all'occorrenza anche una fanfara.
Voi non vi attendete nemmeno da me
un discorso falso, fatuo, pieno di luoghi comuni, non un intingolo
ripugnante che spesso suscita un sentimento di disgusto e di nausea o
anche della semplice sopportazione, come certe arie vecchie che si
sentono suonare nei vicoli suburbani. Io son certo che voi vi
attendete da me un discorso virile e gioioso, durissimo se volete ma
pieno di quelle amare verità che sono anche feconde per lo
spirito che medita e ragiona.
Sono 10 anni che noi viviamo il
grande dramma della Nazione che prende coscienza di se stessa. Questo
dramma comincia nel 1915, comincia con la neutralità; quando
la guerra percorse come una folgore improvvisa gli orizzonti del
mondo. Tutti allora i cittadini furono d'accordo nella neutralità,
ma i più intelligenti e i più animosi compresero che la
neutralità non poteva essere fine a se stessa e ci furono
degli anticipatori allo scoppio della guerra, come quei volontari che
andarono a morire in Serbia o come quelli che andarono a insanguinare
le Argonne.
(segue...)
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