(segue) L'art. 13 della Legge sui rapporti collettivi di lavoro
(11 dicembre 1925)
[Inizio scritto]
Ma prima di procedere innanzi
nella mia argomentazione, che sarà dalle premesse alle
conclusioni rigorosamente logica, io voglio definire ancora una volta
il carattere del nostro sindacalismo.
Il nostro differisce dal
sindacalismo rosso per una ragione fondamentale, ed è questa:
che non mira a colpire il diritto di proprietà. Quando il
datore di lavoro si trova di fronte al sindacato rosso, ha di fronte
un sindacato che fa la lotta per l'aumento del salario in maniera
contingente, mentre il suo fine mediato, lontano, è il
capovolgimento della situazione, cioè l'abolizione del diritto
di proprietà.
Ci sarebbe molto da discutere su
questa proposizione «diritto di proprietà»; ma non
è questo il caso. Comunque il nostro sindacalismo è
sindacalismo selettivo, è un sindacalismo che vuol migliorare
le condizioni delle categorie è delle classi che sotto i suoi
gagliardetti si raccolgono e non ha finalismi: non ne può, non
ne deve avere.
Il nostro sindacalismo e
collaborazionista in questi tempi del processo produttivo: è
collaborazionista nel primo tempo, quando si tratta di produrre la
ricchezza; è collaborazionista in un secondo tempo, quando si
tratta di potenziare questa ricchezza; può non essere
collaborazionista nel terzo tempo, quando si tratta della
ripartizione dei profitti conseguiti. Ma anche allora, se la buona
fede delle due parti esiste, si verifica il collaborazionismo, cioè
la transazione che ristabilisce quell'equilibrio che per un momento
era stato turbato.
Del resto nessun sindacalismo è
finalista, nemmeno in quei paesi lontani dove si crede che si sia
realizzato il paradiso degli operai. Fu domandato ad un operaio della
Nuova Zelanda quale fosse il suo programma ed egli rispose: il mio
programma è semplice, dieci scellini al giorno! Sono piuttosto
i partiti e le loro ideologie che hanno appiccicato a questo
movimento delle finalità che evidentemente lo trascendono.
(segue...)
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