(segue) Relazione alla Camera sugli accordi del Laterano
(14 maggio 1929)
[Inizio scritto]
«Art. 2. - Il Sommo
Pontefice conserva la dignità, l'inviolabilità e tutte
le prerogative personali e sovrane.
«Art. 3. - Con apposita
legge verranno sancite le condizioni atte a garantire, anche con la
franchigia territoriale, l'indipendenza del Sommo Pontefice e il
libero esercizio dell'autorità spirituale della Santa Sede. Il
presente decreto sarà presentato al Parlamento per essere
convertito in legge».
Infatti fu presentato al
Parlamento e suscitò una grande discussione. Durante questa
discussione, in data 20 dicembre, il Ministro degli esteri del tempo,
Visconti Venosta, affermava:
«Si potrà dire, o
signori, che questo progetto della Città leonina, di cui
l'Europa non fu chiamata a prendere atto, ma che abbiamo invece
proposto al Pontefice, non è logico dal punto di vista
dell'abolizione del potere temporale, ma io credo che il Paese non ci
avrebbe condannato, ma ci avrebbe approvato, se in cambio di questa
concessione noi ci fossimo presentati ad esso con la Questione Romana
risoluta».
«Era risoluto così il
più arduo, il più terribile problema della nostra
esistenza nazionale, e sgombrato l'avvenire da ogni incertezza e da
ogni difficoltà».
Dovevano passare ancora
cinquantanni perché questo punto di vista del Ministro degli
esteri del tempo fosse realizzato.
Si parlava dunque di franchigie
territoriali. A questo punto voi mi direte: «Ma perché
questa lezione storica?» Perché voglio dimostrarvi i
precedenti, perché voglio dimostrarvi che io sono conseguente,
e che non solo noi non rinneghiamo il Risorgimento italiano, ma lo
completiamo.
Ci furono in quel torno di tempo,
a Firenze, dove era il Parlamento, tre discussioni interessantissime.
La prima fu provocata dal progetto di legge per il «trasporto»
della Capitale a Roma. Uomini eminentissimi non volevano, all'ultimo
momento, procedere a questo «trasporto». Brutta parola.
Non ve n'è un'altra. Un oratore l'osservò anche allora.
Stefano Jacini, per esempio, fece un grande discorso per dimostrare
come qualmente la Capitale dovesse restare a Firenze. «È
vero — egli disse — che Roma è più centrale
dal punto di vista della longitudine, ma Firenze lo è da
quello della latitudine». «È vero —
aggiungeva ancora — che Roma è più vicina al
Mezzogiorno d'Italia», ma egli affermava che su questo erano in
prevalenza i venti sciroccali, il che conduce alla negligenza. Poi
osservava che Firenze era città degnissima dal punto di vista
dell'arte, dello spirito, della scienza, e infine che Firenze era
lontana dal mare; che mentre Roma poteva essere oggetto di un attacco
dalla parte del mare — egli non pensava evidentemente ancora ai
mezzi di guerra moderni — Firenze, da questo punto di vista,
era completamente al sicuro. In realtà, si temeva di andare a
Roma. Si era abolito il potere temporale, ma si temeva la eventuale
solitudine del Vaticano. Un oratore, durante le discussioni, ricordò
che, avendo Enrico III fatto assassinare il Duca di Guisa ed essendo
poi andato a vederlo dietro un velario, steso per terra col pugnale
ancora infitto nel seno, avrebbe detto: Mon Dieu, qu'il etait grand!
Ora, essendosi distrutto il potere temporale, si temeva quel
vegliardo che si era già dato ad una spontanea volontaria
clausura.
(segue...)
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