(segue) I discorsi di Livorno, Lucca e Firenze
(11, 12, 17 maggio 1930)
[Inizio scritto]
Vi è dunque qualche cosa di
fatale, qualche cosa di divino e d'ineluttabile in questa marcia
verso la grandezza del popolo italiano.
Dopo aver detto che il popolo
italiano, dopo otto anni di Regime fascista, non desidera soltanto il
benessere, ma vuole il suo prestigio ed il suo posto nel mondo, S. E.
il Capo del Governo continuò:
Davanti a questa massa di popolo,
nella quale tutte le classi sono confuse, dai contadini agli operai,
dagli uomini di pensiero agli uomini di fatica, davanti a questa
unità infrangibile, che cosa possono ancora le sfatte
cariatidi del tempo che fu, o coloro che invidiano questa prorompente
giovinezza del popolo italiano?
Al cospetto di questo vostro mare,
di questo «nostro» mare, dopo aver visitato i vostri
cantieri dove gli alacri operai stanno costruendo le future unità
di guerra, io voglio dire a voi, e non soltanto a voi, ma a tutto il
popolo italiano ed anche ai popoli di oltre confine, che noi non
siamo ansiosi di avventure precipitate, ma se qualcuno attentasse
alla nostra indipendenza o al nostro avvenire, esso non sa ancora a
quale temperatura io porterei tutto il popolo italiano!
Non sa a quale formidabile
temperatura io porterei la passione di tutto il popolo italiano,
quando fosse insidiata nei suoi sviluppi la Rivoluzione delle Camicie
Nere.
Allora, tutto il popolo, vecchi,
bambini, contadini, operai, armati ed inermi, sarebbe una massa umana
e più che una massa umana un bolide, che potrebbe essere
scagliato contro chiunque e dovunque.
Ieri, nella terra di Maremma, che
non è più malarica e nemmeno deserta come una
letteratura superata stava ancora dipingendola, ho visto le opere
della terra. Qui, vedo le opere del mare.
Livornesi! Nel mare è la
vostra fortuna e la vostra ricchezza.
(segue...)
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