(segue) Epopea garibaldina
(4 giugno 1932)
[Inizio scritto]
Gli italiani del nostro
eccezionale e durissimo tempo, che questo hanno fatto, non sono
nuclei rari, ma milioni, da un capo all'altro d'Italia, disciplinati,
per la prima volta dopo l'Impero di Roma, in masse di combattimento.
Gli italiani del XX secolo hanno
ripreso tra il '14 ed il '18, sotto il comando Vostro, o Sire, la
marcia che Garibaldi nel 1866 interruppe a Bezzecca, col suo laconico
e drammatico «Obbedisco» e l'hanno continuata sino al
Brennero, sino a Trieste, a Fiume, a Zara, sul culmine del Nevoso;
sull'altra sponda dell'Adriatico.
Le camicie nere che seppero
lottare e morire negli anni dell'umiliazione, sono anche
politicamente sulla linea ideale delle camicie rosse e del loro
condottiero. Durante tutta la sua vita Egli ebbe il cuore infiammato
da una sola passione: «l'unità e l'indipendenza della
Patria». Uomini, sette, partiti, ideologie e declamazioni di
assemblee, le quali ultime Garibaldi disdegnò, propugnatore
come Egli era delle «illimitatissime» dittature, nei
tempi difficili, mai lo piegarono né distolsero da questa meta
suprema.
La vera, la sovrana grandezza di
Garibaldi è in questo suo carattere di Eroe nazionale nato dal
popolo e, in pace e in guerra, sempre rimasto col popolo. Le
guerriglie d'America non sono che un preludio. Digione un epilogo.
Fra i due periodi giganteggia Garibaldi che ha un solo pensiero, un
solo programma, una sola fede: «l'Italia».
Coerente — d'una perfetta
coerenza che gli apologeti postumi del suo nome non sempre compresero
— fu coerente quando offriva la sua spada a Pio IX e quando,
venti anni dopo, lanciava i suoi disperati legionari sulle colline di
Mentana, coerente quando collaborava con Cavour, seguiva Mazzini,
serviva Vittorio Emanuele II, osava Aspromonte, soprattutto coerente
quando dimenticava le crudezze e le insufficienze di molti
contemporanei, poiché sempre e dovunque la sua parola d'ordine
era: «Italia avanti tutto, Italia e Vittorio Emanuele!».
(segue...)
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