(segue) Epopea garibaldina
(4 giugno 1932)
[Inizio scritto]

      Dal 1830 al 1870, per 40 anni il nome e le gesta di Garibaldi riempiono la storia d'America, d'Italia, e influiscono su quella d'Europa. Il principio di nazionalità per il quale combatte, suscita moti nelle nazioni oppresse dalla Vistola al Danubio; quegli echi rimangono ancora e il nome di Garibaldi, nelle masse profonde di taluni popoli, evoca le immagini e gli entusiasmi di una volta. Se la difesa di Roma del 1839 fu superba e vermiglia di eroismi inobliabili, che basterebbero da soli a illuminare di gloria un popolo intero, chi — fra gli italiani degni di questo nome — dimenticherà mai i Mameli, i Daverio, i Morosini, i Manara, i Dandolo e i Masina? La marcia dei Mille da Marsala al Volturno — guerra e rivoluzione insieme — è l'evento portentoso che salda per sempre l'unità della Patria.
      Vi sono nella vita — anche in quella di Garibaldi — le minori e mediocri cose che accompagnano inevitabilmente l'azione: polemiche, ingratitudine, abbandoni: un uomo non sarebbe più grande se non fosse uomo fra uomini. Ma la storia ha già tratto dalle fatali antitesi la sintesi delle definitive giustizie e Garibaldi è più vivo, più alto, più possente che mai nella coscienza della Nazione e nella coscienza universale. Le generazioni del nostro secolo, cariche già di sanguinose esperienze, attraverso la più grande guerra che l'umanità ricordi, si volgono a Garibaldi con occhio al quale non fa più velo la passione antica.
      L'Italia che ha raggiunto le sue intangibili frontiere alpine, portato le sue bandiere e la sua civiltà verso il centro dell'Africa; l'Italia che si prepara a vivere una vita ancora più ampia, ama ed esalta in Garibaldi il navigatore dei mari e degli oceani, il Generale che strappò tutte le vittorie e si piegò a tutte le rinunzie, che offrì alle sue camicie rosse non onori, né spalline, ma «per tenda il cielo, per letto la terra, per testimonio Iddio», che conobbe la solitudine di una cella e l'apoteosi di Londra, il rurale, come Egli stesso si definì, che, nelle soste fra le battaglie e toccato il crepuscolo, amò la fatica e la gente dei campi e, prima di morire, progettò la grande bonifica dell'Agro Romano, l'uomo che disdegnò onori e ricchezze e fu povero come un asceta e generoso più di Cesare.

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