Dopo Londra
(29 luglio 1933)
Questo articolo,
come i due precedenti, fu scritto per l'«Universal Service»
e venne pubblicato dal «Popolo d'Italia» del 29 luglio
1933.
La conferenza di Londra —
sulla quale tante speranze erano state concentrate — può
considerarsi virtualmente finita. Ma io credo che con quella di
Londra finisce il sistema delle conferenze. Non è esatto che
tale sistema sia nato soltanto nel dopo-guerra. Anche prima ci furono
conferenze memorabili e lunghe che discussero importantissimi
problemi europei e mondiali. Ma tali conferenze erano rare. Venivano
accuratamente preparate attraverso le normali vie diplomatiche e si
limitavano a discutere una questione, non a dar fondo all'universo ed
erano limitate nel numero ai Paesi direttamente interessati
all'argomento. L'attuale procedura è assolutamente sbagliata.
Le conferenze non vengono preparate. Quella di Londra meno di tutte
le altre. Con la partecipazione di decine e decine di Paesi, la
conferenza assume forzatamente l'aspetto di un parlamento con tutti
gli inconvenienti generalmente conosciuti e deplorati. Come si
potevano nutrire delle illusioni sui risultati di una conferenza alla
quale erano presenti duemila delegati di oltre sessanta Paesi? È
l'eterna finzione o menzogna convenzionale per cui bisogna bruciare
incensi all'egualitarismo democratico, che non esiste nella Natura e
non è mai esistito nella Storia. Invece di convocare decine di
Paesi — i quali, per circostanze obiettive, non possono avere
una grande influenza nel determinare il corso della vita — era
molto meglio convocare quei Paesi che hanno interessi mondiali e che
non arrivano alla dozzina. Messi d'accordo questi Paesi, la pace
economica veniva data ad almeno il 75 % della totale popolazione del
Globo.
Questo fatto avrebbe avuto le
migliori ripercussioni anche su tutti gli altri Paesi minori. Con
questo non voglio né ignorare né diminuire l'importanza
di taluni Stati, dico che essi hanno interessi legittimi, ma
limitati, i quali possono essere tutelati solo se i grandi Stati, che
hanno le maggiori responsabilità e il maggior numero di
abitanti, si mettano d'accordo. Inoltre le conferenze sono destinate
a fallire, quando al pericolo rappresentato dall'eccessiva numero di
delegati, si aggiunge l'incertezza sull'ordine del giorno. In tal
caso le conferenze scivolano nell'accademia. È quel che è
accaduto a Londra, dove l'inconsistenza del lavoro ha provocato, dopo
le speranze e malgrado i tenaci sforzi di Mac Donald, un senso di
noia universale. Ancora è da considerare che queste conferenze
non giungono a determinare precise responsabilità. Non ci sono
uomini che decidono, ma uomini che parlano, discutono e riferiranno
ai rispettivi governi. Questo è il motivo per cui invece di
decisioni, si fanno delle «raccomandazioni». Le quali
lasciano il tempo che trovano. Due conferenze sono ora agonizzanti e
non mi è dato prevedere per quale miracolo potrebbero essere
richiamate in vita: quella di Londra e quella di Ginevra. Si può
parlare di due fallimenti notevoli e pericolosi nella politica
europea. Senza il Patto a quattro l'Europa avrebbe avuto
l'impressione di trovarsi dinanzi al vuoto o alla vigilia della
guerra. Col Patto a quattro si respira. C'è un senso di
détente in tutta Europa e si notano i primi sia pure
incerti segni di una ripresa economica. Il Patto a quattro ha
previsto infatti l'eventuale insuccesso delle due conferenze e ha
impegnato i quattro Stati che lo hanno firmato a collaborare e sul
terreno del disarmo e su quello dell'economia.
(segue...)
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