(segue) Discorso agli operai di Milano
(6 ottobre 1934)
[Inizio scritto]
L'accoglienza di Milano non mi ha
sorpreso: mi ha commosso. Non stupitevi di questa affermazione. Il
giorno in cui il cuore non fosse più capace di vibrare, quel
giorno significherebbe la fine. (Scroscianti acclamazioni).
Cinque anni fa, in questi stessi
giorni, le colonne di un tempio che pareva sfidare i secoli,
crollavano con immenso fragore. Innumeri fortune si annientavano,
molti non seppero sopravvivere al disastro.
Che cosa c'era sotto a queste
macerie? Non solo la rovina di pochi o molti individui, ma la fine di
un periodo della storia contemporanea, la fine di quel periodo che si
può chiamare dell'economia liberale-capitalistica. (Applausi
vivissimi).
Coloro che guardano sempre più
volentieri al passato, hanno parlato di crisi. Non si tratta di una
crisi nel senso tradizionale, storico della parola, si tratta del
trapasso da una fase di civiltà ad un'altra fase. Non più
l'economia che mette l'accento sul profitto individuale, ma
l'economia che si preoccupa dell'interesse collettivo.
(Acclamazioni).
Davanti a questo declino
constatato e irrevocabile vi sono due soluzioni per dare la
necessaria disciplina al fenomeno produttivo.
La prima consisterebbe nello
statizzare tutta l'economia della Nazione. È una soluzione che
noi respingiamo, perché fra l'altro non intendiamo
moltiplicare per dieci il numero già imponente degli impiegati
dello Stato.
L'altra soluzione è la
soluzione che è imposta dalla logica e dallo sviluppo delle
cose: è la soluzione corporativa; è questa la soluzione
dell'autodisciplina della produzione affidata ai produttori.
(Applausi calorosissimi). Quando dico produttori non intendo soltanto
gli industriali o datori di lavoro: intendo anche gli operai.
(Approvazioni). Il Fascismo stabilisce l'uguaglianza verace e
profonda di tutti gli individui di fronte al lavoro e di fronte alla
Nazione. (Applausi). La differenza è soltanto nella scala e
nell'ampiezza delle singole responsabilità. (Applausi).
(segue...)
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