(segue) Ai camerati di Tripoli
(17 marzo 1937)
[Inizio scritto]
Gli ingegneri e gli operai
italiani hanno lavorato durante alcune stagioni in condizioni di
clima infinitamente meno leggiadre di quelle abituali sul Lago
Lemano, dove la più numerosa e la più potente delle
coalizioni ha tentato invano di soffocare l'Italia.
Se c'è qualcuno che pensa
che tutto ciò sia dimenticato, (un urlo levasi dalla folla:
«No! No!»), si disinganni: Io no!
Ed ora lasciate che io deplori
nella forma più esplicita la campagna di allarmismo che, nei
paesi soprattutto della cosiddetta democrazia più o meno
grande, è stata inscenata a proposito del mio viaggio in
Libia.
Questo continuo allarmismo
nevropatico, questa seminagione di panico e di sospetto, non serve
certamente alla causa della pace, perché turba profondamente
l'atmosfera fra i popoli.
Questo viaggio è
imperialista nel senso che a questa parola hanno sempre dato, danno e
daranno i popoli virili. Ma non ha disegni reconditi e mire
aggressive contro chicchessia. Entro il Mediterraneo e fuori noi
desideriamo di vivere in pace con tutti e offriamo la nostra
collaborazione a coloro che manifestino un'identica volontà.
Ci armiamo sul mare, nel cielo e
sulla terra, perché questo è il nostro imperioso dovere
di fronte agli armamenti altrui, ma il popolo italiano esige di
essere lasciato tranquillo, perché è intento ad una
lunga e dura fatica.
Camerati di Tripoli!
Soprattutto voi avete il dovere di
vivere e di lavorare nel clima dell'Impero che la Rivoluzione delle
Camicie Nere e gli eserciti vittoriosi hanno ridato all'Italia.
Camicie Nere! Saluto al Re!
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