Dai suoi monti selvosi alla marina,
Pisa era desta, il suo millennio in cuore,
come a una gran Crociata levantina.
T'attese: tu venivi a lui con l'ore
prime: anche tu col Sole, dall'Oriente,
ed il rombo del tuo quadrimotore
rotolava improvviso sulla gente
come il tuono di marzo a portar sole
e primavera e sboccio di semente.
Il Popolo era giù, senza parole:
sapeva che era il tuo gran cuore in festa,
chiuso e strepente in quella ferrea mole.
E non udì quel croscio di tempesta
che avea la foce d'Arno. Eri sì bello
lassù, come l'Arcangelo, che desta.
i vivi e i morti: chiuso nel tuo vello
fulvo, vibravi gli occhi di diamante:
dominavi lo spazio: eri sì bello!
E il Popolo ti vide in quell'istante:
cader ti vide: no, scendevi; forse
giocavi con quell'ali, ch'eran tante!
Eran venti ali; oh! le tue folli corse:
ecco sentivi il Popolo più presso
l'ali: venti ali! Oh! Chi te le distorse?
E il vento, che parea sì sottomesso,
ti travolse. Fu l'attimo di un lampo,
e tu cadesti nel vorace amplesso
della Morte: parevi in un bel campo
verde, come un'eroica figura
sopra uno scudo, nel baglior di un vampo.
Nessun tremò: nessuno ebbe paura;
ed ogni Madre si appressò leggera,
e vide in te la bella creatura:
ed ogni Madre vide in te la mera
sembianza del suo figlio: irrigidita
stette a guardarti più decisa e fiera
come a centuplicare la tua vita
terrena, dove nella carne santa
ogni bacio era adesso una ferita.
Diceano: «O Figlio, quale luce e quanta
nella tua morte!» Ed ogni man ti pose
sul petto i fior d'ogni più bella pianta.
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