Erano le 17 quando l'aeroplano del Führer decollò dal campo di Treviso. Dopo mezz'ora decollava quello di Mussolini, diretto a Roma. Già prima di superare il Soratte, Roma apparve all'equipaggio del velivolo del Duce come avvolta in una grande nuvola nera. Era il fumo che saliva dalle centinaia di vagoni della stazione del Littorio in fiamme. L'officina dell'aeroporto era distrutta. Il campo rovinato dai crateri delle bombe era inatterrabile. Volando su Roma, dal Littorio a Centocelle, si ebbe la sensazione netta che l'attacco era stato massiccio e i danni ingenti.
Pochi alti funzionari attendevano Mussolini all'aeroporto. Salito in macchina egli si diresse verso villa Torlonia. Intanto dalle strade una moltitudine di uomini, donne, bambini, in auto, in bicicletta, a piedi, con ogni sorta di "impedimenta" domestiche si dirigeva verso la periferia e la campagna. Una moltitudine; meglio una fiumana.
Era un'illusione sfumata: quella cioè che Roma — città santa — non sarebbe mai stata bombardata. Che la migliore artiglieria contraerea era il Vaticano, che Miron Taylor aveva portato al Papa una garanzia in tal senso del Presidente americano e altre cose del genere: tutto ciò — speranze, desideri — annullato da un bombardamento brutale che era durato quasi tre ore, aveva fatto migliaia di vittime e distrutto intieri rioni della città.
Quando il re si recò a visitare i luoghi colpiti, non fu accolto a sassate, come fu detto; ma la folla rimase, al suo passaggio, chiusa e ostile.
All'indomani Mussolini si recò a visitare la stazione e l'aeroporto del Littorio, l'Università e nel pomeriggio gli aeroporti di Ciampino, dovunque accolto da manifestazioni di simpatia. Al mercoledì mattina si recò dal re a riferire sui colloqui di Feltre.
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