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«Sfido — egli scriveva — qualsiasi vicino o lontano, illustre od oscuro, amico od avversario, in buona o in mala federa dimostrare che durante venti mesi di governo fascista e di fatica improba per me, io mi sia giovato per raccomandare una legge o un decreto, un favoritismo, un'attenzione, un riguardo, dal quale mi siano venuti direttamente o indirettamente benefici di qualsiasi genere. Sfido chiunque e metto come posta la vita, a dimostrare che mi sono valso, in qualsiasi caso, in qualche occasione, presso privati, gerarchie, ministri, etc., della mia parentela fraterna col Duce supremo d'Italia, e se invece tutto questo non mi abbia imposto una severità di vita, un riserbo, un silenzio eccessivo che onora entrambi e che ci mette — almeno nell'opera di profonda rettitudine — ad uno stesso altissimo livello... Non ho scritto, ripeto, per gli avversari — che non vogliono capire — ma soprattutto ho scritto per quei dieci spudorati che invano hanno atteso da me commendatizie, raccomandazioni e biglietti per entrare nella circolazione e per fare degli affari che ora si vendicano per la mia ferma, dignitosa, assoluta resistenza». |