«Il popolo italiano — scriveva Arnaldo — non invoca una dea astratta, di cui non sente né la presenza, né il bisogno e che si chiama la libertà: il popolo italiano, invece, invoca la giustizia, sente profonda e umana la rettitudine del vivere civile, maledice le prepotenze e benedice i giusti».
Sono del 1926 le prime interessanti schermaglie polemiche coi giornali cattolici Italia e Osservatore Romano, sulla questione romana e mediatamente sui rapporti fra Chiesa e Stato. Arnaldo ha collaborato alla conciliazione del 1929, come a quella — non meno laboriosa e drammatica — del 1931. Un problema questo che egli intimamente sentiva, all'infuori delle mie direttive e suggestioni. Ma sin dal 1926, i termini del grave problema venivano prospettati con obbiettiva precisione.
«Da quattro anni a questa parte, l'autorità religiosa, dal sommo gerarca al più semplice ministro, è riguardata come elemento che non si discute, che non si valuta, che non si offende. Il diritto della proprietà vaticana è un dettaglio. Lo Stato italiano non spoglia nessuno. L'Italia è sempre stata prodiga e l'Italia nuova non intende porre limitazioni offensive all'opera cristiana della Chiesa. Ma se questo è un dovere che lo Stato ed il Fascismo compiono, si può ben a ragione credere che al termine del dovere compiuto nasca un diritto e cioè quello di non vedere ignorata con ostentata freddezza ed ostilità la realtà dell'unità italiana con Roma capitale». Egli pensava che «i reggitori dell'uno e dell'altro potere» dovessero ratificare quello che il popolo italiano — nel suo buon senso ed intuito fondamentale — «ha già ratificato con la vita operosa di ogni giorno». «Non è infatti — ammoniva — la prima volta che anticipatori siano i più umili. Forse gli umili, nel loro giudizio, sono i più vicini al giudizio di Dio».
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