In una successiva lettera del 2 giugno, egli mi riferiva le impressioni della mia ultima settimana di maggio milanese culminata nelle manifestazioni di Piazza del Duomo e del Monumento ai Caduti.
Dopo qualche settimana ritrovo tra le mie carte le sue lettere già listate a lutto per la tragedia del figliuolo. Ma da una lettera mandata in data 20 ottobre 1930 al dott. Ravasio, uno dei dirigenti del Fascismo milanese, mi piace togliere il brano seguente e significativo:
«Io ho avuto occasione altre volte di affermare chiaramente che non riconosco legittimo il diritto che hanno alcuni privilegiati (privilegiati per il fatto di avere a disposizione un giornale) di esercitare la critica in senso scandalistico. Vi possono essere delle segnalazioni e nulla più. Per quali virtù eccessive, umane o divine, taumaturgiche o meno, un giornalista può pontificare di vita o di morte, può fare valutazioni più o meno giuste, può esprimere giudizi più o meno fondati, critiche più o meno oneste, su tutte le vicende che interessano un partito, una città nei suoi quadri legittimi? A questa stregua il principio gerarchico viene stroncato. È inutile che io aggiunga che il signor Belloni non mi interessa per nulla. Forse, a Milano, sono il solo che non ha avuto occasione di chiedere a lui il favore di un cerino o la protezione di una guardia civica».
Di lì a poco, il 14 novembre, Arnaldo tornò a Milano accolto da una grande manifestazione di popolo. Il 10 dicembre 1930 mi scriveva: «Le mie notizie non hanno grande interesse. Ad ogni modo ti dirò che sono soddisfatto che l'Augusta a Roma si trovi bene abbastanza in modo da ricostruire la nostra casa così crudelmente percossa. Non ti nascondo che pensando a Sandrino e alle sue armonie memorabili provo il dolore acuto dei primi giorni».
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