In quel periodo di tempo io pronunciai alla Camera un discorso sull'abolizione della festa del 20 settembre. Arnaldo così lo giudicava, il 13 dicembre 1930:
«Ti scrivo dal letto dove mi trovo da ieri con febbre e con molto male di gola. Domattina mi alzerò, almeno, spero. Soli, lontani, in letto, con mille ricordi angustianti non è una cosa piacevole. Non fa nulla. Ho letto stamane il tuo discorso. Inutile dire che mi è molto piaciuto. Io «sentivo» da qualche tempo la necessità di una difesa storica dell'unità italiana. I fascisti, presi dalla contingenza, lasciano inavvertitamente smantellare il castello dell'unità e la probità dei suoi artefici. L'Osservatore Romano è uno stillicidio di questo genere. La tua proba e serrata dissertazione storica mette le cose a posto e solleva il tono generale della vita politica del Paese. Ciò premesso, ti segnalo l'impressione sgradevole che si ha leggendo i tuoi discorsi in terza persona. Io penso che avrai scelto questa forma di riportare il tuo discorso, perché qualche cosa di analogo lo dovrai dire al Senato. Altrimenti la terza persona sarebbe un errore. Il popolo italiano ama la linea chiara e diritta. Vuol comunicare direttamente col Duce. Le sue psicologie e sensibilità devono incontrarsi. La terza persona è un diaframma che fa perdere vigore ed efficacia al discorso e dà una forma sinuosa e contorta al pensiero. Coi migliori rallegramenti per la sostanza del discorso non ho saputo tacerti queste mie impressioni per la forma».
Nel 1931 la corrispondenza è scarsa, perché ci vedevamo più spesso e per lunghi periodi di tempo.
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