Sentii che la mia preghiera non poteva essere accolta. Era vana. Mi sembrava di vedere contro di me un ostacolo che non potevo atterrare; una forza oscura che non potevo superare. Tu reclinavi, come un ramo che non possa più reggere, al carico pesante dei frutti opimi! Morivi perché eri perfetto e non eri di questa terra. Ma, con lo spirito, si ribellava tutto il mio essere: sentivo, nella disperazione di chi vede premorire i propri nati, come il dolore fisico di una ferita dilaniante. Capii purtroppo che la scienza non aveva risorse e che il miracolo non si compiva.
La mattina di mercoledì venti agosto, il sole era sfolgorante: ma io vidi subito, sensibilmente, all'orizzonte una striscia nera. Il prof. Ferrata mi disse: «È moribondo. Non soffre».
Ecco: da questo punto tu non ricordi, non puoi ricordare. Eri ancora fra noi, non potevi guardarci da lontano, come ora; ma non avevi più che qualche barlume di coscienza, a intervalli. Sono io, ora, che racconto a te quelle ore tragiche, vissute intorno alla tua estrema sofferenza.
La notte era passata agitatissima. Ma poi una certa calma era subentrata nel tuo organismo ormai sfinito. Si iniziava lo stato preagonico. Alle diciassette cominciò l'agonia. Io ti tenevo in braccio. Mi ero fatto forza per tutti gli altri: avevo preparato l'anima della Mamma, di Vito, della tua sorellina, alla catastrofe imminente. In ginocchio, guardammo in alto, in un'ultima, muta, disperata invocazione.
Non dimenticherò mai per tutta la vita le ore della tua agonia. Eri leggermente posato sul fianco; la respirazione era affannosa, e destava in noi un senso di spasimo. Avrei voluto tagliarmi le vene, strapparmi la vita, pur di darti un po' di riposo e di forza.
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