Giovanni Adamoli

L'esperienza di guerra
(I documenti)


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MEMORIA SULLA POSIZIONE POLITICO-MILITARE, DALLA DATA DELL'8 SETTEMBRE 1943, DEL TENENTE COMMISSARIO R.E. DI COMPLEMENTO ADAMOLI GIOVANNI CLASSE 1914- DISTRETTO MILITARE DI TERAMO. CENNO SULLA POSIZIONE DEL MEDESIMO NEL VENTENNIO FASCISTA


Alla data dell'8 settembre 1943, mi trovavo a Ragusa, in Croazia, in servizio presso la Direzione di Commissariato Militare del VI Corpo d'A. Il 12 settembre Ragusa fu occupata dai tedeschi, i quali per prima cosa disarmarono tutte le truppe italiane colà residenti.
Sin dal 12 settembre ai militari ed Ufficiali italiani fu posta dai Comandi tedeschi la domanda di adesione o meno alla causa del nazifascismo. Il sottoscritto rispose negativamente.
Un simile atteggiamento, nei primi giorni di occupazione da parte tedesca, poteva significare l'uccisione di chi detta posizione assumeva, perché i tedeschi, con la domanda posta, desideravano discriminare quelli che loro ritenevano traditori dai non traditori e poter sfogare sui primi il loro livore e la loro ferocia. In tutta la Balcania sono noti i massacri che i tedeschi al riguardo compirono.
Le sofferenze, alle quali fummo sottoposti, sono inaudite. Noi Ufficiali fummo ammassati, come semplice materiale umano, in Gravosa, porto di Ragusa, in una sudicia baracca. Di mangiare i primi giorni non si parlò affatto. Grazie ai vincoli di solidarietà nazionale, alcune famiglie italiane, colà residenti, vennero in nostro soccorso portandoci qualche cosa da mangiare, che però, dato il numero degli Ufficiali, serviva solo a ridurre di poco l'appetito che si sviluppava e che nonostante tutto gradualmente si trasformava in fame.
Dopo alcuni giorni fummo tradotti nel penitenziario di Zenica, sempre in Croazia, un po' più a nord di Sarajevo. Quivi, come volgari banditi, fummo gettati, cinque-sei per ogni cella, in attesa di provvedimenti. Ci veniva somministrato un rancio al giorno od ogni due giorni a seconda del fluire e rifluire delle masse dei prigionieri.
Qui un giorno ci fu annunciata la costituzione della repubblica fascista, alla quale, singolarmente, fummo invitati di aderire o meno. Per la seconda volta risposi negativamente.
Era naturale che tale risposta procurasse a me ed agli altri compagni di sventura maltrattamenti ed ingiurie, che nell'intenzione dei tedeschi, avrebbero dovuto umiliarci.
Non nascondo che il mio organismo cominciava a reagire sensibilmente ai maltrattamenti ai quali era sottoposto e s'indeboliva sempre più. Indice evidente di questo indebolimento graduale era la riduzione, che ad ogni spostamento da campo a campo, ero costretto ad operare, del già mio esiguo bagaglio, che consisteva in una borsa e in uno zaino.
Il 24 settembre fummo caricati (l'espressione è esattissima, non pecca di proprietà linguistica) su vagoni-merce nel quantitativo di 45-50 Ufficiali per ogni vagone e partimmo così da Zenica per incognita destinazione. Ogni vagone era chiuso accuratamente dall'aguzzino tedesco e forse anche sigillato..., allo scopo di evitare sottrazioni e cali di materiale umano. Quando eravamo fortunati il vagone era aperto una volta al giorno e ci erano concessi pochi minuti per prendere un po' d'aria..., dopo di che tra urla, ingiurie e colpi di moschetti, eravamo invitati a risalire sul carro che accuratamente veniva chiuso di nuovo.
Quando scendeva la notte, la nostra situazione diventava ancora più tragica. Ognuno s'illudeva di potersi adagiare in qualche modo e riposare, ma per la nota legge dell'impenetrabilità dei corpi o ciò era impossibile o ciascuno doveva adattarsi a sentire sul proprio corpo minimo tre o quattro paia di gambe degli altri compagni.
La seconda soluzione era quella che di solito s'imponeva. Se di giorno le scene che si svolgevano nei carri potevano considerarsi drammatiche, di notte erano indiscutibilmente tragiche.
Molti la notte erano in preda al delirio, altri si contorcevano in tutte le maniere e nei momenti di sosta in qualche stazione invocavano l'aiuto di qualcuno perché si aprisse il vagone. L'espressione tragica era: "Bitte, abort" a cui si contrapponeva o il silenzio della notte oppure un reciso ed inesorabile "Nein". Altri ancora si limitavano ad emettere qualche gemito ed altri, isterici e turbolenti, trovavano anche il modo di bisticciarsi. Gli attori di simili scene, a turno, per forza di cose e sotto la spinta della necessità, eravamo noi stessi.
Dopo sette giorni e sei notti di viaggio, attraverso la Croazia l'Austria e percorrendo la Germania, fummo condotti a Bad Orb, piccolo villaggio tra Norimberga e Francoforte.
Fummo ospitati, dopo una marcia di sedici chilometri, zaino in ispalla e senza mangiare da più di un giorno, in un campo di concentramento, munito di reticolati, sentinelle, cartelli di avvertenza e baracche. Dopo svariate perquisizioni, nelle quali ci venivano tolti, senza alcun motivo, anche oggetti di vestiario e di biancheria, fummo alloggiati in baracche, nelle quali erano situati castelletti in legno pluriposti. Ognuno quindi si assegnava, come meglio capitava la propria cuccia. Il vitto era sempre dosatissimo e somministrato senza alcuna regola, casuale, accessorio.

Un triste fenomeno cominciava a verificarsi nei campi di concentramento a danno, come sempre, dei poco-abbienti o dei nullatenenti, ai quali appartenevo anch'io. Molti, alla data dell'8 settembre ed al momento della dissoluzione, avevano manomesse le casseforti militari, altri più fortunati avevano avuto la possibilità, perché facilitati da circostanze più favorevoli, di portare con loro oltre allo zaino anche delle cassette militari con oggetti di corredo e viveri, che, aiutati dal caso o dalla Provvidenza, riuscivano a sottrarre alle perquisizioni. Siccome nei campi di concentramento, nella lotta per l'esistenza s'iniziava la serie dei baratti o il commercio di pane e di tabacco con sentinelle e militari tedeschi, i quali imponevano dei prezzi elevatissimi, i prigionieri capitalisti, che disponevano di molto denaro liquido, elevavano le ragioni di scambio in modo tale da eliminare completamente dal mercato i nullatenenti, per i quali la situazione diventava sempre più tragica. Per di più l'incognita del futuro pesava sempre più ed assumeva tinte sempre più fosche per i poveri prigionieri, che di nulla disponevano se non della biancheria che portavano addosso. A questa categoria, ho già detto, apparteneva il sottoscritto.
Restammo a Bad Orb circa sette giorni. In questo periodo la domanda di adesione alla repubblica fu rinnovata ad ognuno singolarmente per altre due volte dai Comandi tedeschi. A questi due inviti risposi ancora negativamente. Il giorno prima di partire da Bad Orb si presentò una Commissione italiana composta da fascisti e da Ufficiali, la quale ripetette a tutti la nota domanda. Anche questa volta risposi di no. A risposte negative seguivano, come già detto, ingiurie da parte dei tedeschi. Il vitto diventava sempre più irregolare e limitato.
L'8 ottobre si parte da Bad Orb, caricati su vagoni-merce, come sopradescritto e dopo aver attraversato tutta la Germania, la Cecosclovacchia, la Polonia ci fermiamo a Tarnopol, il campo più lontano verso oriente. A Tarnopol giungiamo verso il 19 ottobre. Non descrivo la vita di Tarnopol perché la solita vita del prigioniero e dell'internato (distinzione d'ordine giuridico nelle quali si affannavano le Ambasciate tedesche ed italiane, mentre a noi mancavano tutte le cure sia che fossimo considerati internati che prigionieri.)
Vivevamo comunque anche qui, come a Bad Orb, in baracche non sempre solide e dormivamo su castelletti di legno pluriposti.
La razione, che giornalmente ci assegnavano, era assolutamente insufficiente. Pane nerissimo e quindi quasi per niente assimilabile dal nostro organismo, in quantità limitata e poi o margarina o marmellata o una specie di ricotta acida o un po' di grasso da spalmare. Non essendovi a Tarnopol acqua potabile ci davano acqua di tiglio bollita opportunamente distribuita.
A Tarnopol, nei mesi di ottobre, novembre e dicembre, vennero tre commissioni a ripeterci l'invito di adesione alla repubblica fascista. Anche qui io per tre volte risposi negativamente. Possono testimoniare alcuni miei concittadini che a Tarnopol trovai, ma dei quali però le famiglie attendono ancora il ritorno.
Molti ormai avevano aderito per uscire dall'inferno della prigionia e della sofferenza. Si cominciava ormai a diffondere l'opinione che mediante l'adesione si sarebbe avuto non solo un miglioramento nel vitto ma anche la sicurezza di rientrare in Italia.
E questi furono per molti i fattori determinanti che indussero all'adesione. In terra straniera e dopo tante sofferenze l'Italia per noi era diventata la Terra promessa che forse mai più avremmo potuto raggiungere, un Paradiso reale al quale aspiravamo e che difficilmente avremmo potuto più meritare. Sventolare quindi ai nostri occhi la possibilità di rientrare in Italia aveva su di noi internati, ormai quasi annientati dalle sofferenze, un effetto ipnotico. Tuttavia al bel sogno che mi si presentava di realizzare si contrapponeva la mia avversione a quella che ormai era la causa tedesca. Così, nonostante tutto, mantenni un atteggiamento negativo di fronte agli svariati inviti delle Commissioni fasciste, sebbene il mio organismo desse segni evidenti di deperimento e di debolezza. Non avendo nessuna possibilità di acquistare e di barattare oggetti nel campo, dovevo vivere con la sola razione d'internato, assolutamente insufficiente.
Il morso della fame, nella sua tragica realtà, può essere compreso solo da chi effettivamente l'ha sentito, perché non credo che vi sia penna di scrittore che possa rendere il concetto con le sole parole a chi è sempre vissuto nell'agiatezza o anche nel comune disagio.

Quanto tempo ancora sarebbero durati i nostri patimenti? I Russi allora cominciavano a dare segni di ripresa, ma la Francia era ancora occupata dai tedeschi, come anche l'Italia settentrionale e centrale. Quindi per quanto gli alleati potessero accelerare le loro operazioni di guerra, questa minimo doveva prolungarsi ancora per altri otto-dieci mesi, secondo i calcoli che i più realisti facevano. Gli illusi parlavano di poche settimane. La guerra invece, come orami è noto, riferendoci al dicembre 1943, durava ancora per altri sedici mesi.
A Tarnopol restammo fino al 27 dicembre 1943, data nella quale fummo caricati su vagoni-merce nella nota maniera e condotti verso ignota destinazione. Dopo quattro giorni di viaggio, giungemmo a Biala-Podlaska, sita a nord-est di Varsavia.
Ci ospitarono in una baracca quasi rotta, gelida e ci fu assegnata della paglia bagnata per dormire. Lì eravamo lasciati a tempo indeterminato in attesa di sistemazione.
Se a Tarnopol avevo in tre mesi assistito ai funerali di due Ufficiali, compagni di sventure, morti per sopravvenuta tubercolosi, a Biala in una sola settimana assistemmo a tre funerali, di cui due morti per malattia e per mancanza di cure. I medici parlavano sempre di tubercolosi in seguito ad indebolimento dell'organismo. Il terzo morì suicida, per disperazione e preoccupato che fosse ormai anche lui tubercolotico.
La vita era impossibile e sembravamo tutti destinati a morire. Nessuna speranza di salvezza. Quanto affermo può essere testimoniato da alcuni miei concittadini, che trovai a Biala e che ebbero la fortuna di raggiungere l'Italia e quindi Teramo sin dal maggio dell'anno scorso. Sapevamo che in quei giorni sarebbe venuta una nuova Commissione per invitarci non più all'adesione, essendo ormai i quadri delle quattro divisioni fasciste già al completo, ma ad offrirci la possibilità di presentare una domanda generica di eventuale adesione alla repubblica sociale da prendere in esame dalle autorità fasciste e tedesche per la loro eventuale accettazione.
Dalle famiglie dell'Italia settentrionale pervenivano cartoline nelle quali si comunicava che realmente molti di quelli che avevano presentato la detta domanda erano già da tempo rientrati in Italia.
Tutto il campo, quasi tremila, presentò detta domanda che in fondo non impegnava nessuno. Con la sicurezza di non poter essere in nessun modo impegnato in attività politica o militare, presentai anch'io detta domanda in data 16 gennaio 1944.
Restammo nel campo di concentramento di Biala sino al 25 marzo, data nella quale venne l'ordine di essere condotti ad un campo di concentramento ignoto. Ivi arrivammo il 28 marzo sempre sui carri-merce e con vitto, sebbene leggermente migliorato, sempre insufficiente.
Detto campo risiedeva a cinque chilometri da Norimberga. Il 13 aprile fu comunicato che tutti gli Ufficiali e militari, quivi raccolti, sarebbero stati rimpatriati ad eccezione di una sessantina di Ufficiali.
La mattina del 14, riuniti in un piazzale del campo, assistemmo con trepidazione alla lettura dei nomi dei sessanta infelici, che per il momento non potevano andare alla volta dell'Italia.
Sventurato tra sventurati, sentii chiamare il mio nome con il mio numero di matricola assegnatomi all'atto dell'internamento (IX-B 11823). Stetti per perdere i sensi. L'Italia, che io mi illudevo di poter rivedere fra pochi giorni, mi si dileguava ancora una volta.
Il giorno dopo infatti insieme con gli altri compagni di sventura fummo indirizzati verso la Germania nord-occidentale in un campo vicino a Paderborn nella Vestfalia. Credetti di impazzire al pensiero che, mentre gli Ufficiali, rimasti nel campo di Norimberga sarebbero tornati in Italia, io chissà, per quanto tempo ancora avrei dovuto calcare l'infausta terra di Germania.
Arrivato nel campo nominato fui sottoposto a visita medica ed accusando malattie che in realtà non avevo mai avute e mettendo in evidenza la miopia di cui realmente sono affetto, riuscii a farmi dichiarare non idoneo al servizio militare; così con l'incubo di essere inviato da un momento all'altro a lavorare in qualche fabbrica a seconda del capriccio dei Comandi tedeschi, ivi rimasi sino alla data del 20 agosto, giorno per me santo perché in quel giorno mi fu comunicato che insieme con altri Ufficiali non idonei al servizio militare avrei dovuto partire subito alla volta dell'Italia.
Ero così riuscito ad evitare un qualsiasi giuramento di fedeltà alla repubblica fascista. Il 22 agosto giunsi a Riva di Trento ed il 24 dello stesso mese fui assegnato ad un Ufficio di Revisione di Contabilità, dipendente dalla Ragioneria centrale-Ministero delle finanze, nella qualità di impiegato civile, ma con retribuzione corrispondente al grado che avevo nell'esercito.
Cercai di dispensarmi anche da questa attività, di natura comunque prettamente amministrativa e al di fuori di qualsiasi attività politico-militare; ma non mi fu concesso. Chiesi più volte una licenza, ma questa mi fu negata con il motivo che la mia famiglia, trovandosi nell'"Italia invasa" (questa era l'espressione rituale nella repubblica del Nord) io non avrei dovuto avere nessun interesse di fruire di una qualsiasi licenza.
Detto Ufficio, dislocato a Padenghe (prov. di Brescia) dal 24 agosto al 14 febbraio '45, fu trasferito in detta data a Bernareggio (prov. di Milano).
Qui mi sorpresero gli eventi della liberazione; essendo giunta notizia che Verona era stata liberata dagli alleati, mi diressi verso tale direzione. A Lonato, una quarantina di chilometri prima di Verona mi presentai ad un Comitato di liberazione per essere munito di documenti. A detto Comitato io presentai la mia Carta d'identità, il piastrino e la corrispondenza di ex-internato. Mi fu risposto che con detti documenti, non solo avrei potuto circolare liberamente, ma avrei avuto tutte le facilitazioni che desideravo.
Così fu, perché fermato per la via più volte dai patrioti, i quali dopo aver esaminato le mie carte verificavano se ero in possesso di armi, ero lasciato proseguire. Fermato anche tre volte dalla Polizia alleata, questa non mi trovava nessun motivo di fermo.
Così, dopo sette giorni di viaggio, un po' a piedi ed un po' con mezzi di fortuna, raggiunsi Teramo verso il 10 maggio.
Concludendo, la mia posizione nel periodo che va tra il ventennio fascista e la repubblica sociale è la seguente:
1) Nel ventennio sono stato iscritto nelle organizzazioni giovanili del passato Regime. Come studente non potevo dispensarmi dall'appartenere a dette organizzazioni, altrimenti, come è noto, non avrei potuto esplicare nessuna attività. Non ho avuto mai nessun incarico nel Partito, né direttivo, né in qualsiasi modo di fiducia. Sono stato sempre un semplice iscritto. Nei quattro anni che ho frequentato la Facoltà di Economia e Commercio nell'Università di Genova ero iscritto al G.U.F.. Non ho mai curato l'iscrizione al Partito essendo rimasto iscritto anche dopo la laurea al predetto G.U.F. e ciò mi era concesso.
2) Alla data dell'8 settembre '43 ero in Croazia presso il VI C.d.A., da dove fui internato in vari campi d'internamento della Germania fino all'agosto 1944.
3) Il 20 agosto fui rimpatriato perché non idoneo a prestare il servizio militare.
4) Non ho prestato nessun giuramento alla repubblica fascista. Solo nel campo di Biala Podlaska, come sopra detto, presentai domanda di eventuale adesione alla repubblica, che scongiurai per non aver giurato, al solo scopo di migliorare il vitto e di rientrare in Italia. La vita nei campi d'internamento era diventata impossibile.
5) In Italia dall'agosto '44 alla fine di marzo '45, sono stato assegnato in un Ufficio di Revisione di Contabilità alla dipendenza della Ragioneria Centrale-Ministero delle Finanze. Le mie funzioni sono state quindi sempre al di fuori di qualsiasi attività politico-militare.
6) non mi sono iscritto al Partito repubblicano fascista, essendo detta iscrizione facoltativa.
7) gli eventi della liberazione mi sorpresero a Bernareggio (provincia di Milano) e da quivi, messomi in viaggio, con mezzi di fortuna, in dieci-dodici giorni raggiunsi Teramo.

TENENTE COMMISSARIO R.E. di compl.
(Adamoli dott. Giovanni)

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