Altre bande vi erano, tra le quali quella di Ursini Sabatucci, che contava molti teramani, e quella del barone Giulio Rosales. Ma la banda del bisnonno, per le gesta compiute, era la più forte, la più temuta.
Operò non soltanto in Abruzzo, ma anche nelle Marche, nelle Puglie, nel Lazio, gettando in Roma, quando giunse alle sue porte, il più vivo sgomento. Uscirono, per respingerlo, con un vero esercito, i più famosi capitani, sconfitti nel primo incontro.
Dopo qualche altra scorreria egli tornò alle sue montagne, per altri cimenti.
Poté talvolta, per necessità, eccedere nelle azioni e nelle reazioni, ma rispettò e fece sempre rispettare la religione, i deboli, le donne.
Il Viceré di Napoli, per disfarsene, gli mancò contro, al comando del colonnello Spinelli, quattromila uomini. L mio bisnonno, senza scomporsi, accettò battaglia e ancora una volta vinse. E ancora una volta dimostrò di possedere elevatissimo il senso cavalleresco. Aveva ordinato ai suoi di non sparare contro il colonnello, riconoscibile al cavallo bianco che cavalcava.
La sua fama s'allargò tanto che Alfonso Piccolomini, duca di Montemarciano, ribelle, con le bande di Romagna, al granduca di Toscana, ne domandò l'alleanza.
Era davvero il re della montagna, come lo chiamavano, e Napoli e Roma, per potersene liberare, unirono ancora una volta le loro forze. Il bisnonno si preparò, sicuro e sereno, alla nuova battaglia. Quando seppe che a quelle forze, che potevano essere considerate legittime, s'univa il popolo corrotto dal danaro, ebbe un momento di smarrimento. Per non macchiarsi di sangue così volgare, non accettò la nuova sfida e rompendo il cerchio che lo avvolgeva, con la sua banda andò a mettersi al servizio della repubblica veneta.
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