Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     Non disdegnavano di accettare battaglia, allorché vi erano costretti, uscendone sempre vittoriosi.
     Minacciarono qualche volta anche la città e una scorreria la spinsero un giorno sino a Colleatterrato, destando molto panico. Corsero voci confuse sulle loro intenzioni. I cittadini si tapparono in casa; le giovani si rifugiarono nei conventi. Corsero gli armati, come nei momenti di maggior pericolo, a chiudere le porte, a occupare i bastioni, a suonare le campane. Lo scompiglio aumentò quando la truppa, uscita per un'azione contro di essi, tornò battuta.
     Comandavano quelle bande, come assicurava un contadino che le aveva viste, due giovani dall'aspetto civile. Anzi, con squisito senso di cavalleria, l'avevano incaricato di portare alla più bella donna di Teramo, in omaggio, un dono di fiori.

     Era chiaro che non avevano intenzione di giungervi. Dopo non molto, in verità, attraversando il Tordino, si diressero verso la parte più alta del Pennino, da dove, giuntivi, ammirarono il magnifico panorama, che con le valli, i fiumi, le colline, i monti e il mare, s'apriva loro dinanzi.
     "Pieno di lusinghe è sempre il creato" disse Giulio a Santuccio "e la sua bellezza è un invito al godimento, cosa che gli uomini, nella loro cecità, non sanno comprendere. Alla stessa nostra giovinezza più che i canti della primavera confanno lo scroscio delle acque, il gracidar del corvo, l'ululato del lupo.
     Non era così, Santuccio, quando, da piccoli preti, eravamo assorti nello studio e nella preghiera, entro quel fabbricato coperto dall'ombra del campanile. E' come il ricordo d'un giardino in fiore, in tempo di aridità. Ma non è arido il mio cuore e ben lo sa, laggiù a Mosciano, la mia Cinzia.


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Umberto