Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     Questa volta, con una certa meraviglia, non erano state suonate le campane; non erano state chiuse le porte; non erano accorsi armati a difesa dei bastioni. Corse alla mente dello Sciacqua e del Vitelli, condottieri di quelle masnade, il sospetto di un qualche tranello, ma non lo temevano, ed entrarono nella città senza paura, con un disegno ben determinato.
     Non un cittadino, per gli ordini del Bianchini, era rimasto in istrada, né un armato. I saccheggiatori, che vi fecero molto rumore, sparando qua e là, vi si sentirono padroni. Dopo un'affrettata ricognizione, si diressero, secondo il loro disegno, verso le case dei ricchi. Bussarono. Nessuna risposta. Alla pressione le porte cedevano, ma subito si richiudevano, come trappole, alle loro spalle, e robuste braccia li serravano in una stretta, dalla quale non più si liberavano. E caddero anche i capi, nella tragica trappola.

     Gli altri banditi, rimasti fuori, conosciute le disgraziate vicende dell'impresa, si diedero a fuga precipitosa, verso la montagna.
     Il giorno successivo, dopo un sommario giudizio, sette di quei banditi, tra essi lo Sciacqua e il Vitelli, pendevano lugubremente da sette alberi, nelle sette porte della città.
     Terribile risposta alla sfida lanciata a Frondarola alla parola del frate, alla voce della civetta.



     Mentre a Teramo si svolgevano tali eventi, Mosciano rendeva pure essa, ai suoi salvatori, larghe onoranze. Si parlava molto di Giulio Montecchi, ferito nel conflitto. Lo ricordavano quando giovanetto aveva ivi soggiornato, frequentando la chiesa parrocchiale. Non spiegavano, però, come mai, nella notte paurosa fosse a capo d'una banda di fuorilegge. Intervento miracoloso, ma avvolto di mistero.


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Umberto