In Italia la disciplina fascista che regna nei sindacati ha avuto il felice effetto di permettere l'adattamento dei salari al nuovo corso della lira senza provocare dei nuovi disturbi sociali.
La politica italiana dei salari ha conosciuto tre fasi, successive. Durante la prima, il governo ha perseguito un ribasso del salari reali attraverso la fissità del salari nominali, per effetto della svalutazione monetaria Si trattava di ritornare su dei rialzi eccessivi ottenuti durante le agitazioni rivoluzionarie del periodo prefascista, rialzi che avevano provocato un aumento considerevole dei costi di produzione con grave danno del commercio internazionale dell'Italia. Durante il secondo periodo che ha seguito immediatamente la rivalutazione e la deflazione monetaria, il governo ha cercato di mantenere senza aumentare il potere di acquisto dell'operaio, favorendo dei ribassi nominali di salario in armonia con il nuovo valore della lira e il ribasso del costo della vita.
Infine il governo fascista ha cercato di proteggere i salari contro un ribasso eccessivo. I salari minimi imposti dai contratti collettivi, che corrispondono ai salari minimi effettivamente praticati, resistono alle diminuzioni che i datori di lavoro vorrebbero imporre.
Comunque i salari nominali furono ribassati fino a raggiungere l'adattamento al nuovo corso della lira; anzi la loro diminuzione precedette, per un certo periodo di tempo, il ribasso del costo della vita, cosicché i salari reali si trovarono ad un livello inferiore a quello d'anteguerra. Ma grazie a questo sacrificio, è stato possibile una sostanziale riduzione dei costi di produzione, condizione indispensabile d'un ribasso ancora più accentuato nel livello generale del prezzi.
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