Ma sarebbe stato profondamente ingiusto se gli operai fossero stati i soli chiamati a fare le spese di questa politica di riduzione dei costi di produzione.
L'equità esigeva che sforzi paralleli fossero tentati per ridurre anche la rimunerazione del capitale.
Lo Stato, riaggiustando la sua situazione finanziaria, agì in due sensi in questo campo. Da una parte prese a prestito meno e la domanda dei capitali se ne trovò ridotta, per cui in virtù della legge della domanda e dell'offerta il tasso d'interesse ne risultò abbassato.
Dall'altra lo Stato, ispirando maggiore fiducia, trovava esso stesso dei mutuanti meno esigenti e i prestiti pubblici potevano essere contrattati a dei tassi molto minori. Il governo poté anche operare la conversione del suo debito e l'interesse fu portato dal 5 al 3%.
La Banca d'Italia, in meno di due anni, ridusse il tasso di sconto dal 7 al 3%.
Infine con un decreto approvato in consiglio dei ministri il 18 settembre 1934, lo Stato intervenne direttamente sul mercato privato per ridurre il tasso d'interesse dei prestiti fondiari. Certamente la posizione dell'agricoltura era particolarmente critica in conseguenza della chiusura o della restrizione degli sbocchi stranieri, di guisa che il detto decreto portò ad esso un sollievo considerevole.
Ma questo provvedimento rientra pienamente nel quadro degli interventi fascisti destinati a ridurre il costo di produzione. Esso consistette nel convertire le obbligazioni di credito fondiario in nuovi titoli portanti un interesse del 4%. I detentori di titoli avevano la scelta tra il rimborso dei titoli alla pari e lo scambio contro i nuovi titoli garantiti dallo Stato.
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