E' evidente che, in simili condizioni, anche lo sviluppo della popolazione dovrebbe commisurarsi al lento passo di questa situazione statica di cose: e lo sviluppo della ricchezza procederebbe languido, come languida si fa la vita in una situazione di questo genere.
Storicamente un simile stato di cose si aveva nei tempi antichi. Allora però anche la politica si era adattata all'ambiente economico. E cioè, quando la popolazione premeva sulle sussistenze, si procedeva ad una guerra di conquista. Roma rappresentò il caso tipico di tale civiltà. Le conquiste coloniali fino al secolo decimottavo furono un'altra rappresentazione di questa situazione.
Oggi però una soluzione di tal genere è resa impossibile da un fatto semplice: che si è abolita la schiavitù. Roma, conquistato uno Stato, ne ripartiva il territorio fra i capi della conquista e gli oligarchi, traducendo in servitù i cittadini del paese vinto. Era evidente allora che la guerra rendesse economicamente ai vincitori e risolvesse il duplice problema quantitativo della popolazione romana e dei mezzi di sussistenza di essa.
Oggi la schiavitù è cancellata: i paesi barbari si sono ridotti grandemente di numero; la interdipendenza dei bisogni - così vastamente molteplici - si è fatta sempre più stretta. E, soprattutto, la tecnica economica è diventata talmente complessa e delicata, che una guerra fra popoli civili si è dimostrata nel 1918 un colossale errore, anche sotto l'aspetto economico.
La grande guerra, col suo esempio classico, ha chiarito: 1) che, dal punto di vista economico, ogni guerra fra Stati civili costituisce oggi un errore "finanziario"; 2) che il pensare di far pesare tutte le conseguenze finanziarie sul vinto, è una illusione; 3) che la guerra significa per i vinti e per i vincitori, in pari misura, il peggiore degli affari, data l'interdipendenza degli interessi economico-finanziari. Oggi l'economia è, per necessita tecniche, mondiale e non nazionale.
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