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Ansia tormentosa
[68] Così passavano, nell'ansia e nel pericolo, i giorni della
passione. Dopo un' assenza di qualche tempo, che dava motivo a
molte supposizioni, non escluse quelle di iniziate trattative di
pace tra i belligeranti, i velivoli alleati ricomparivano e con
maggiore frequenza. Volevano, evidentemente, ricuperare il tempo
perduto. Gli allarmi si succedevano di ora in ora, di giorno e di
notte, senza tregua. Di notte, sorvolando quasi le case,
gettavano palloncini e razzi luminosi. Ma i buoni pretuziani,
come al solito, se la dormivano tranquillamente. Tutt' al più i
timidi facevano capolino dalle finestre, guardavano in alto,
guardavano su e giù, brontolavano, maledivano e tornavano a
dormire.
Una notte sullo scorcio di maggio, dopo un furioso giro su la
città, che poteva far davvero rabbrividire, sganciavano bombe e
spezzoni nella contrada del Cimitero Vecchio. Forse vi avevano
visto qualche edificio illuminato. Non perdonavano alle luci.
Molte le case lesionate; due colpite in pieno. Dalle macerie si
estraevano feriti e sei morti, tre della famiglia Cialini, tra
cui un giovane, Francesco, molto bravo, di anni diciotto.
A queste innocenti vittime di operazioni senza scopo, di una
ferocia senza nome, si rendevano, a spese del comune, solenni
funerali. Funerali di affettuosa pietà, che avvenivano, come una
sfida, con largo concorso di popolo e di autorità, mentre
roteavano in alto, minacciosi, i neri apparecchi della morte.
Questa rinnovata attività molto preoccupava, e si pensava se non
fosse il caso di far sfollare in parte la città. Ma proprio in
quei giorni avvenivano fatti che facevano prevedere prossimi
nuovi eventi.
L' offensiva sul fronte del Lazio, che si svolgeva favorevole
agli alleati, aveva anche qui le sue ripercussioni. Svegliava,
generalmente, molto brio, molta loquela, le più ottimistiche
previsioni, le più rosee speranze. Non mancavano strategiche
intuizioni di fortunati sbarchi, di giganteschi avvolgimenti. Lo
sgombero degli Ospedali, in fretta ordinato dai Comandi tedeschi,
aumentava la speranza, la certezza della non lontana così detta
liberazione.
[69] I Tedeschi, evidentemente, per sottrarsi a più gravi disastri,
se ne andavano. Chi nella notte vegliava, poteva udire fuori,
nella strada movimenti, rumori non consueti di carri, autocarri,
quadrupedi. Nei giorni successivi, nei primi di giugno, ai carri
militari seguivano carri agricoli, vetture di ogni specie, tirati
da buoi, da cavalli, da muli, da asini, di cui la nostra
campagna, le nostre fattorie, tutti i nostri villaggi erano stati
depredati, spogliati. Carri colmi della roba più varia: dalla
biancheria ai mobili; dai viveri agli utensili caserecci e
campestri, tolti spietatamente al nostro lavoro, alla santità
dei nostri affetti, al sacrario dei nostri familiari ricordi.
Ciò che i predoni non potevano asportare, con I' istinto dei
vandali, rompevano, distruggevano, o vendevano.
Al saccheggio, come un castigo di Dio, non era sottratta neppure
la città. A mano a mano che i Comandi se ne allontanavano,
portavano con sè quanto costituiva ricchezza, patrimonio sacro
della casa, che avevano occupata al loro giungere.
Non erano soltanto i soldati a predare, ma anche gli ufficiali,
deliberatamente.
Non vi era più sosta nello sgombero. Da molti segni si arguiva
che questo territorio non sarebbe stato, per fortuna, campo di
battaglia. Lo dicevano, consultando le carte, anche i nostri
strateghi. Ma i pericoli di una rovina non erano del tutto
eliminati. I Comandi, con i quali continuavo a tenermi
ansiosamente a contatto, quasi per indovinarne il pensiero, per
spiarne le mosse, assicuravano, però, che Teramo non avrebbe
sofferto danni se non in quelle cose, non notevoli, di carattere
militare.
[70] Non si riusciva ad evitare, nel frattempo, altri pericolosi
incidenti. Dal comando di Presidio, ove si trovava un capitano,
nuovo giunto, del tipo prussiano, era stato richiesto per la
custodia di cavalli, un certo numero di operai, che si sarebbero
dovuti presentare, per le ore otto, alla Caserma Costantini. Ma
non vi andarono nè alle otto, nè alle undici, nè, secondo
successivi accordi, alle diciotto. Alle venti circa, ero appena
rientrato in casa, quando un soldato vi bussava, per presentare
le lagnanze del suo comando, non solo ma anche per chiedere la
consegna, per i provvedimenti punitivi, del funzionario
incaricato dell' adempimento dell'ordine.
Anche questa volta per salvare gli altri, andavo, come sempre, a
rispondere di persona. Non poco mi turbava il pensiero che
proprio negli ultimi giorni dovessero accadere quei fatti
luttuosi, per scongiurare i quali avevo lavorato, con forte
spirito di sacrificio e con accurata sottile diplomazia, per ben
nove mesi.
Era necessario, quindi, non derogarvi, per giungere felicemente
sino alla conclusione, non lontana, di quella commedia, pronta
per un nonnulla a trasformarsi in sanguinosa tragedia.
Dovevo faticare non poco per calmare le furie dell' inferocito
prussiano, il quale, tra l altro, mi faceva chiaramente intendere
che avrebbe usato tutti i mezzi e contro chiunque, per vincere
qualunque tentativo di disubbidienza o di sabotaggio, messo in
atto, in un modo qualsiasi, ai loro danni.
Ma io, a mia volta, facevo osservare che la città si sentiva già
minacciata dalle truppe che vi passavano, poichè, contrariamente
all' ordinanza del generale Zanthier, affissa a grossi caratteri
alle due porte, vi stavano commettendo atti di violenza che molto
preoccupavano.
Essendo la conversazione, a mano a mano, diminuita di vivacità,
non trascuravo di perorare, ancora una volta, la buona causa di
Teramo, ricevendone confortanti assicurazioni.
[71] Quel capitano, rabbonito dalle mie parole, raccomandava di
avvertire la popolazione a non commettere atti di violenza, a non
esporsi, a non uscire, ma di rimanere in quel trambusto
possibilmente chiusa in casa. Su i terribili
"guastatori" gli ultimi a comparire su la tumultuosa
tragica scena, nessuna autorità aveva per frenarne gli istinti
brutali. Anzi spesso, come diceva, gli stessi Tedeschi ne erano
vittime.
Avevo in quegli ultimi sforzi, per salvare la città, un buon
collaboratore in un soldato austriaco, professore di belle arti
nelle scuole di Vienna, che parlava speditamente l'italiano.
Egli, che faceva da interprete, sapeva rendere il mio pensiero,
al suo superiore, con molta abilità, e mi era largo di notizie e
di utili consigli. Spesso mi veniva a trovare in ufficio, per
mettermi al corrente della situazione e dei provvedimenti che, in
quel frangente, intendevano adottare i Tedeschi.
Mi dispiace di non rammentarne il nome, per indicarlo alla
riconoscenza cittadina. Ma posso additare alla riconoscenza, alla
gratitudine dei teramani il nome di altro interprete, già
capitano distrettuale croato, dott. Zeliko Zijvanovic, noto pure
alla Prefettura, il quale, con la sua esperienza e con spirito
italiano, mi aiutava a superare, nella sfibrante mortale fatica,
le molte gravi difficoltà.
Ma il giorno dopo di quel colloquio, altro incidente risvegliava
le ire e i contrasti. Per mio ordine era stata ripulita la città
di tutti i manifesti, di ogni genere, che la imbrattavano. Il
fatto semplice in sè, non era sfuggito all' attenzione di quel
Comando. Quando la sera di quello stesso giorno accompagnavo il
vice prefetto Giuseppe Labisi ed il Vicario Generale della Curia
monsignor don Lorenzo Di Paolo, presente il capitano Carlo
Canger, per invocare la grazia a favore di quattro condannati a
morte, provenienti dalla provincia di Pescara, quel capitano ne
parlava con molto sdegno, giudicando I' atto prematuro,
inopportuno.
[72] Anche questa volta si riusciva, in qualche modo, a calmarlo, con
la promessa di nuova affissione di quei bandi, che potessero
maggiormente interessare. Nondimeno, quel prussiano riteneva di
fare, su quanto accadeva, le sue considerazioni, dicendo tra
l'altro:
"All'arrivo. degli Anglo - Americani, che voi aspettate,
farete festa. Voi imbandiererete la vostra città, suonerete le
vostre campane, farete i vostri cortei, canterete le vostre
canzoni, ritenendo che essi siano migliori di noi. Non è così e
ci ricorderete quando saremo lontani".
Poteva aver ragione, ma nel senso che gli uni potevano valere gli
altri. Nel senso che, o Tedeschi o Anglo-Americani erano sempre
stranieri, che calpestavano arrogantemente il sacro suolo di
questa nostra sventurata patria!
L'esodo, con ritmo accelerato, continuava. Poi si attenuava,
finiva. Come a chiudere I' ultimo atto del doloroso dramma, si
presentavano, come si temeva, i nefasti soldati della rovina
organizzata. Non erano soldati, erano predoni della peggiore
specie. Distruggevano, è vero, le officine, i mulini, le cabine
per l' energia elettrica, gli impianti telefonici e telegrafici,
l' acquedotto, i ponti ; ma penetravano anche, a mano armata,
forzando le porte, nelle rimesse, nei negozi, nei magazzini,
nelle case, per svaligiarvi quanto ancora vi rimaneva. Derubavano
pure le persone, che s'avventuravano per la strada, con oggetti
di valore.
La città, senza armi, viveva sotto il peso del più tormentoso
incubo. Anche le Autorità; anche i più generosi dovevano
reprimere i moti di una santa reazione, per evitare la sanguinosa
rappresaglia, che non sarebbe mancata. Per un nonnulla avevano già
trucidato alla periferia sei cittadini, tra cui un ragazzo. Fatti
di saugue avvenivano anche nelle frazioni, ove gli abitanti
cercavano di difendere il loro onore, i loro diritti.
[73] Il più grave accadeva nella frazione di Caprafico. Soldati
Tedeschi di passaggio, forse su indicazione di spie, spesso si
presentavano nella casa di un certo Natale Di Carlantonio, che
aveva fama di danaroso, appuntato della Guardia di Finanza, da
molti anni in pensione, proprietario. Il poveretto, vecchio e di
mal ferma salute, che stava godendo il frutto del suo lungo
onesto lavoro, rimaneva molto turbato di quelle brigantesche
visite. Pure, per evitare danni maggiori, faceva del suo meglio
per soddisfare, anche se ingiuste, le loro richieste. Ne era, però,
ormai stanco, tanto più che esse non accennavano a finire.
Quando chiedevano cose che forse egli non poteva, o non voleva'
più dare, dopo vivace diverbio, l'agnello si mutava in lupo.
La tragedia, in quel recinto di pace, si svolgeva con una rapidità,
che forse neppure i protagonisti se ne erano potuti rendere
conto. Malgrado i suoi ottantacinque anni, il Di Carlantonio,
armato di fucile, che usava per la caccia, sparava. Sparava con
lo spirito acceso di giusta ira, su quei rapinatori a mano
armata, e ne uccideva uno, ne feriva un altro. Ma il coraggioso
era a sua volta colpito, brutalmente ucciso. Era uccisa,
innocente vittima, anche la vecchia moglie, che, trovandosi
fuori, era accorsa alle detonazioni.
Così finiva, a causa di un folle uso della forza, quel
galantuomo, che aveva sempre dato, e nella vita militare e nella
vita civile, prove sicure di amore al lavoro, di mite bontà, di
esemplare rettitudine.
Eroe? Senza dubbio, e come tale sarà nel tempo ricordato ed
onorato.
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