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Smarrimenti
[74] Lo sgomento aumentava con l'aumentare delle violenze, tanto più
che le truppe della liberazione, fedeli ai loro metodi,
avanzavano senza fretta. Nell' ansia si mandavano esploratori
oltre le valli, oltre i fiumi, su le vette delle colline, ma le
notizie che se ne avevano non erano incoraggianti. Quantunque i
Tedeschi, nella loro ritirata, non dessero più molestia, l'
avanzata degli alleati continuava con mortale lentezza.
Si temeva anche per l' ordine interno. Non si riteneva
consigliabile sollecitare un intervento anticipato dei
partigiani, non avendo essi mezzi sufficienti. Nulla, invero,
avevano potuto fare contro quelle colonne, che, con ricco
bottino, risalivano indisturbate le vie, dalle quali erano
discese.
Concorrevano alcuni, invece, ad aumentare la confusione ed il
panico, mandando dalla montagna lettere minatorie. Ne perveniva
una anche a me, con la quale mi si ingiungeva di abbandonare
subito l'ufficio se intendevo vivere ancora qualche giorno.
Ecco a che conduceva il risveglio di certi istinti, celati nel
fondo dell' animo umano. lo, Podestà di Teramo, che tanto avevo
fatto, disinteressatamente, per il risanamento morale e materiale
della pubblica amministrazione e della città; io, che avevo
dedicato, per oltre sette anni, tutte le mie ore, tutta la mia
attività, la parte migliore di me stesso a favore del popolo, ed
avevo assistito, confortato fraternamente, in tutti i modi, le
famiglie degli stessi partigiani; io, che dinanzi alle più gravi
responsabilità ed ai più gravi pericoli non ero fuggito, e non
avevo esitato un momento ad offrire la mia vita, per salvare
quella dei miei concittadini e della mia città, dovevo essere
magari impiccato, come un malfattore.
[75] Ma i Tedeschi, se vi si fossero decisi, mi avrebbero soppresso,
quasi come una vendetta della storia, con quella stessa micidiale
arma, con la quale io avevo personalmente e terribilmente
falciate, nel maggio del 1916, le loro schiere, lanciate alla
conquista della insanguinata quota 1528 del Costesin, Altipiano
d'Asiago, affidata alla mia difesa.
Ed i Tedeschi erano stranieri e nemici.
Lessi e rilessi la lettera, con la massima calma, come posta
ordinaria d'ufficio, e la posi nel cassetto, tra i documenti miei
personali. Ben s' intende, anche dopo tale minaccia, che poteva
non essere scherzo, rimanevo al mio posto, non ritenendo ancora
compiuta la mia missione. Con i Tedeschi ancora in casa, i
pericoli incombevano sempre gravi su la città. Decidevo di
rimanere a qualunque costo, dinanzi a qualunque pericolo, sino
all' arrivo degli alleati, sino al superamento della tremenda
tempesta, non ancora placata.
Poi m' impiccassero pure!
Ma nei giorni successivi ricevevo dalla montagna altra lettera ,
scritta dal comandante Armando Ammazzalorso, secondo quanto egli
stesso poi mi dichiarava, molto garbata. Con la stessa mi si
ringraziava della mia opera, riconosciuta così dagli stessi
partigiani, e mi si invitava a restare al mio posto, a protezione
della popolazione.
Nel frattempo, poichè temevo che, con la partenza dei Tedeschi,
l'ordine pubblico potesse essere turbato, a mezzo del Signor
Antonio Gattarossa, cercavo di prendere contatto, per concordare
un piano comune d'azione, con gli stessi partigiani. Oltre che
sulle guardie comunali, io potevo contare su l' opera di molti
combattenti, che a mia richiesta, essendo loro Presidente, si
erano messi, per ogni evenienza, a mia disposizione.
E questi combattenti, i cui nomi figuravano in un elenco, se
chiamati, avrebbero fatto molto bene il loro dovere, per la
tutela della città e dei cittadini.
[76] Ma i Tedeschi, in quei giorni, mi guardavano con occhio sempre più
sospettosamente torvo. Non si spiegavano, forse, la mia operosa
calma, quando in un vivo panico i gerarchi fascisti, sordamente
minacciati, cercavano salvezza nella fuga verso settentrione. Non
ero in verità tranquillo, tanto che reputavo prudente di cambiar
casa. Ma nelle loro ricerche, poiché proprio mi ricercavano,
riuscivano a scovare questa casa, che era poi quella di mio
cognato avv. Vincenzo Cameli, al largo Melatino, indicata loro,
certo in buona fede, da una donna, vestita di nero. Era subito
circondata e bloccata nelle sue uscite. Ma per quanto
picchiassero, tra lo sgomento delle donne, che sole vi si
trovavano, non si apriva loro. Io ero ancora, sia pure con
ragionata prudenza, in adempimento della mia missione.
Verso mezzogiorno, quando appunto, molto cauto, vi ritornavo, i
Tedeschi, forse chiamati altrove, abbandonavano la casa e
l'impresa. Li potevo vedere io stesso, mentre se ne allontanavano
molto crucciati. Per il precipitare degli eventi, non avevano poi
più tempo di ritornarvi.
Col giorno quindici, infatti, le prime pattuglie della montagna,
tra le quali quelle comandate dall'avvocato Pio Mazzoni, potevano
entrare a fugare gli ultimi predoni, che s'attardavano per le
strade deserte.
In questa opera necessaria per l'eliminazione di ogni altro
pericolo, il bravo avvocato, con lo zelo, metteva anche in atto
la nobiltà, l'umanità del suo sensibile animo. Nelle attive
ricerche 5' imbatteva, nei pressi del viale Bovio, in due soldati
motociclisti, che, essendo armati, potevano costituire ancora un
pericolo per i beni e per la vita dei cittadini. Poichè non
ubbidivano all'intimazione di resa, nella sua qualità di
partigiano, sparava su di loro. Uno dei soldati, essendo stato
ferito, poco dopo cadeva, mentre l'altro continuava, in
motocicletta, nella corsa d'allontanamento. Poichè l'ira
popolare, anche per gli ultimi atti commessi, era molto accesa
contro i Tedeschi, il Mazzoni accorreva a difendere la vita, già
minacciata, di quel soldato. Provvedeva successivamente,
continuando nell'opera buona, ad una prima medicazione delle
ferite, ad accompagnarlo, poi, per le altre cure, all' ospedale
civile.
[77] Luce viva, che rischiarava, tra il buio e lo scatenarsi delle
passioni, la via della bontà.
Più tardi arrivavano le altre bande, con i comandanti che
cavalcavano, alla garibaldina, alla testa. Ricevevano dalla
popolazione, riversatasi, come fiumana, sulle strade, una
grandiosa dimostrazione, che induceva il vice prefetto Labisi,
che funzionava da capo, anche lui conquistato dal generale
entusiasmo, a consegnare ad uno dei comandanti i propri poteri.
Dinanzi alla città che, dopo tante vicende e tante
preoccupazioni, si vedeva libera dai Tedeschi, intatta nelle
strade, nei giardini, negli edifici, nelle Chiese, nella
popolazione, quelle manifestazioni, anche se fragorose, potevano
essere giustificate. Ma si frammischiava ai partigiani, per
dividerne gli onori, altra gente sbucata, non si sa da dove, all'
ultimo momento.
Nessuno, però, in quella festa, si ricordava di me, della mia
opera. Destino riservato sempre agli uomini di buona volontà.
Eppure, quando, sopportando da solo, o quasi, il peso enorme dei
nove mesi di prepotente minaccioso dispotismo teutonico, mi ero
volontariamente votato al sacrificio, non erano mancate le belle
parole, l'approvazione, le lodi; non erano mancate le promesse di
tangibili atti di gratitudine, di alte pubbliche popolari
attestazioni. Invece, non appena scomparso il pericolo, tutto
pareva dimenticato. Mi si toglieva anche la modesta soddisfazione
di consegnare io stesso la città intatta ai liberatori, essendo
stato all'ultimo momento, con la partenza dell'ultimo Tedesco,
sostituito dalla carica di Podestà.
Dalla Prefettura, per sue particolari ragioni, era stato ritenuto
conveniente far trovare al mio posto, all'arrivo degli alleati,
un suo funzionario.
[78] Neppure la Prefettura, quindi, una volta in salvo, si ricordava
che nei turbinosi eventi, anzichè ritirarmi, come sarebbe stato
logico, ero rimasto ad affrontare, come in un campo di battaglia,
le molte gravi minacce, i molti gravi pericoli; non ricordava i
molti elogi per la mia complessa continua ferma opera svolta, in
quell' ora delicatissima e vulcanica, pure in suo favore; non
ricordava che nel salvare la città avevo salvato la stessa
Prefettura, alla quale i Tedeschi, prima di presentarsi a me,
nelle tragiche giornate del settembre 1943, avevano comunicato,
gettandovi molto sgomento, la nota sanguinosa rappresaglia che
intendevano di fare su Teramo.
Ma andiamo avanti!
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