Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)



Smarrimenti

[74] Lo sgomento aumentava con l'aumentare delle violenze, tanto più che le truppe della liberazione, fedeli ai loro metodi, avanzavano senza fretta. Nell' ansia si mandavano esploratori oltre le valli, oltre i fiumi, su le vette delle colline, ma le notizie che se ne avevano non erano incoraggianti. Quantunque i Tedeschi, nella loro ritirata, non dessero più molestia, l' avanzata degli alleati continuava con mortale lentezza.
Si temeva anche per l' ordine interno. Non si riteneva consigliabile sollecitare un intervento anticipato dei partigiani, non avendo essi mezzi sufficienti. Nulla, invero, avevano potuto fare contro quelle colonne, che, con ricco bottino, risalivano indisturbate le vie, dalle quali erano discese.
Concorrevano alcuni, invece, ad aumentare la confusione ed il panico, mandando dalla montagna lettere minatorie. Ne perveniva una anche a me, con la quale mi si ingiungeva di abbandonare subito l'ufficio se intendevo vivere ancora qualche giorno.
Ecco a che conduceva il risveglio di certi istinti, celati nel fondo dell' animo umano. lo, Podestà di Teramo, che tanto avevo fatto, disinteressatamente, per il risanamento morale e materiale della pubblica amministrazione e della città; io, che avevo dedicato, per oltre sette anni, tutte le mie ore, tutta la mia attività, la parte migliore di me stesso a favore del popolo, ed avevo assistito, confortato fraternamente, in tutti i modi, le famiglie degli stessi partigiani; io, che dinanzi alle più gravi responsabilità ed ai più gravi pericoli non ero fuggito, e non avevo esitato un momento ad offrire la mia vita, per salvare quella dei miei concittadini e della mia città, dovevo essere magari impiccato, come un malfattore.
[75] Ma i Tedeschi, se vi si fossero decisi, mi avrebbero soppresso, quasi come una vendetta della storia, con quella stessa micidiale arma, con la quale io avevo personalmente e terribilmente falciate, nel maggio del 1916, le loro schiere, lanciate alla conquista della insanguinata quota 1528 del Costesin, Altipiano d'Asiago, affidata alla mia difesa.
Ed i Tedeschi erano stranieri e nemici.
Lessi e rilessi la lettera, con la massima calma, come posta ordinaria d'ufficio, e la posi nel cassetto, tra i documenti miei personali. Ben s' intende, anche dopo tale minaccia, che poteva non essere scherzo, rimanevo al mio posto, non ritenendo ancora compiuta la mia missione. Con i Tedeschi ancora in casa, i pericoli incombevano sempre gravi su la città. Decidevo di rimanere a qualunque costo, dinanzi a qualunque pericolo, sino all' arrivo degli alleati, sino al superamento della tremenda tempesta, non ancora placata.
Poi m' impiccassero pure!
Ma nei giorni successivi ricevevo dalla montagna altra lettera , scritta dal comandante Armando Ammazzalorso, secondo quanto egli stesso poi mi dichiarava, molto garbata. Con la stessa mi si ringraziava della mia opera, riconosciuta così dagli stessi partigiani, e mi si invitava a restare al mio posto, a protezione della popolazione.
Nel frattempo, poichè temevo che, con la partenza dei Tedeschi, l'ordine pubblico potesse essere turbato, a mezzo del Signor Antonio Gattarossa, cercavo di prendere contatto, per concordare un piano comune d'azione, con gli stessi partigiani. Oltre che sulle guardie comunali, io potevo contare su l' opera di molti combattenti, che a mia richiesta, essendo loro Presidente, si erano messi, per ogni evenienza, a mia disposizione.
E questi combattenti, i cui nomi figuravano in un elenco, se chiamati, avrebbero fatto molto bene il loro dovere, per la tutela della città e dei cittadini.

[76] Ma i Tedeschi, in quei giorni, mi guardavano con occhio sempre più sospettosamente torvo. Non si spiegavano, forse, la mia operosa calma, quando in un vivo panico i gerarchi fascisti, sordamente minacciati, cercavano salvezza nella fuga verso settentrione. Non ero in verità tranquillo, tanto che reputavo prudente di cambiar casa. Ma nelle loro ricerche, poiché proprio mi ricercavano, riuscivano a scovare questa casa, che era poi quella di mio cognato avv. Vincenzo Cameli, al largo Melatino, indicata loro, certo in buona fede, da una donna, vestita di nero. Era subito circondata e bloccata nelle sue uscite. Ma per quanto picchiassero, tra lo sgomento delle donne, che sole vi si trovavano, non si apriva loro. Io ero ancora, sia pure con ragionata prudenza, in adempimento della mia missione.
Verso mezzogiorno, quando appunto, molto cauto, vi ritornavo, i Tedeschi, forse chiamati altrove, abbandonavano la casa e l'impresa. Li potevo vedere io stesso, mentre se ne allontanavano molto crucciati. Per il precipitare degli eventi, non avevano poi più tempo di ritornarvi.
Col giorno quindici, infatti, le prime pattuglie della montagna, tra le quali quelle comandate dall'avvocato Pio Mazzoni, potevano entrare a fugare gli ultimi predoni, che s'attardavano per le strade deserte.
In questa opera necessaria per l'eliminazione di ogni altro pericolo, il bravo avvocato, con lo zelo, metteva anche in atto la nobiltà, l'umanità del suo sensibile animo. Nelle attive ricerche 5' imbatteva, nei pressi del viale Bovio, in due soldati motociclisti, che, essendo armati, potevano costituire ancora un pericolo per i beni e per la vita dei cittadini. Poichè non ubbidivano all'intimazione di resa, nella sua qualità di partigiano, sparava su di loro. Uno dei soldati, essendo stato ferito, poco dopo cadeva, mentre l'altro continuava, in motocicletta, nella corsa d'allontanamento. Poichè l'ira popolare, anche per gli ultimi atti commessi, era molto accesa contro i Tedeschi, il Mazzoni accorreva a difendere la vita, già minacciata, di quel soldato. Provvedeva successivamente, continuando nell'opera buona, ad una prima medicazione delle ferite, ad accompagnarlo, poi, per le altre cure, all' ospedale civile.
[77] Luce viva, che rischiarava, tra il buio e lo scatenarsi delle passioni, la via della bontà.
Più tardi arrivavano le altre bande, con i comandanti che cavalcavano, alla garibaldina, alla testa. Ricevevano dalla popolazione, riversatasi, come fiumana, sulle strade, una grandiosa dimostrazione, che induceva il vice prefetto Labisi, che funzionava da capo, anche lui conquistato dal generale entusiasmo, a consegnare ad uno dei comandanti i propri poteri.
Dinanzi alla città che, dopo tante vicende e tante preoccupazioni, si vedeva libera dai Tedeschi, intatta nelle strade, nei giardini, negli edifici, nelle Chiese, nella popolazione, quelle manifestazioni, anche se fragorose, potevano essere giustificate. Ma si frammischiava ai partigiani, per dividerne gli onori, altra gente sbucata, non si sa da dove, all' ultimo momento.
Nessuno, però, in quella festa, si ricordava di me, della mia opera. Destino riservato sempre agli uomini di buona volontà.
Eppure, quando, sopportando da solo, o quasi, il peso enorme dei nove mesi di prepotente minaccioso dispotismo teutonico, mi ero volontariamente votato al sacrificio, non erano mancate le belle parole, l'approvazione, le lodi; non erano mancate le promesse di tangibili atti di gratitudine, di alte pubbliche popolari attestazioni. Invece, non appena scomparso il pericolo, tutto pareva dimenticato. Mi si toglieva anche la modesta soddisfazione di consegnare io stesso la città intatta ai liberatori, essendo stato all'ultimo momento, con la partenza dell'ultimo Tedesco, sostituito dalla carica di Podestà.
Dalla Prefettura, per sue particolari ragioni, era stato ritenuto conveniente far trovare al mio posto, all'arrivo degli alleati, un suo funzionario.
[78] Neppure la Prefettura, quindi, una volta in salvo, si ricordava che nei turbinosi eventi, anzichè ritirarmi, come sarebbe stato logico, ero rimasto ad affrontare, come in un campo di battaglia, le molte gravi minacce, i molti gravi pericoli; non ricordava i molti elogi per la mia complessa continua ferma opera svolta, in quell' ora delicatissima e vulcanica, pure in suo favore; non ricordava che nel salvare la città avevo salvato la stessa Prefettura, alla quale i Tedeschi, prima di presentarsi a me, nelle tragiche giornate del settembre 1943, avevano comunicato, gettandovi molto sgomento, la nota sanguinosa rappresaglia che intendevano di fare su Teramo.
Ma andiamo avanti!

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