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I liberatori
[79] L'arrivo delle truppe alleate, tra le quali quelle polacche, era
accolto, come si prevedeva, con grande entusiasmo. Città
imbandierata, nuovi festosi cortei nelle vie, rumorosi spari di
fucileria e di mitragliatrici. I liberatori, finalmente giunti
anche nella loro lentezza, avrebbero portato con sè, come si
credeva, sicurezza, pace, abbondanza.
Preso possesso della città, avveniva nella piazza del Popolo una
prima adunata. Vi parlava, in buono italiano e con molta enfasi,
un loro propagandista, sacerdote cattolico, ponendo abilmente in
evidenza l'opera svolta dai propri signori per la redenzione dei
popoli, per la liberazione d'Italia.
Tante altre belle cose diceva, tra i generali applausi. Il
Vescovo Monsignor Antonio Micozzi, da una finestra del suo vicino
palazzo, anche lui ascoltava ed approvava con vive battute di
mani. Alla fine, mentre si alzava, tra la preghiera, la mesta
figura di Cristo crocifisso, simbolo di pace e di giustizia', il
Vescovo impartiva al sacerdote, alle truppe presenti, al popolo,
la sua benedizione.
I Comandi alleati s'insidiavano, intanto, ma solo in funzione di
polizia e di controllo. I pochi reparti combattenti, italiani e
polacchi, proseguivano per il fronte.
A capo della Prefettura era stato messo, nel frattempo, un
capitano d'artiglieria, il Lorenzini, anche lui vissuto, dopo
l'otto settembre, nell'ospitale montagna. Di buone qualità,
senza dubbio, ma d'insufficiente preparazione per dirigere, in un
momento così delicato, un ufficio così importante. Rendeva più
difficile il compito, per la mania dell'epurazione ad ogni costo,
la sostituzione di provati esperti funzionari, con altra
improvvisata gente, avida di avventure e di fortuna. Non ne
agevolavano, finalmente, il compito tutte quelle altre ingerenze,
che i partigiani di ogni colore intendevano esercitare in ogni
ufficio, nonostante il funzionamento legittimo del Comitato di
liberazione, costituito da ottime persone.
[80] Non mancavano, di conseguenza, incidenti, che mentre da una parte
non dissipavano la confusione ed il panico, non concorrevano
dall'altra a migliorare, di fronte agli alleati, il nostro già
scosso prestigio.
Sbocciavano, nel medesimo tempo, nella nuova primavera Italica,
come variopinta fioritura, i tanti partiti a tribolare la già
tribolata vita cittadina e nazionale.
In tal modo si mettevano maggiormente in evidenza le nostre
deficienze, la nostra decadenza, iniziatasi quando, nei fatali
ricorsi, non era stata ancora raggiunta la vetta, in cima alla
quale splendeva la nuova luminosa meta. Il fato regolatore delle
umane vicende, non ne doveva essere estraneo; ma neppure estraneo
doveva essere l'abbuiamento spirituale degli Italiani.
Nella caduta pareva che non si guardasse la voragine, che si
apriva di sotto spaventosa; che non più si guardasse in alto, al
bel volto pallido e sconsolato della patria colpita. Pareva che,
con i torvi desideri, con i neri egoismi, rifiorissero gli odi di
parte e le vendette; rifiorissero, nella sventura, persino le
lotte regionalistiche, mentre i partiti, servendo appunto lo
straniero, magari in buona fede, da stolti si dilaniavano sul
bell'italo corpo, profondamente ferito, sanguinosamente mutilato.
Intanto non tardavano a prodursi, nell' ottimismo e nelle
speranze degli stessi cittadini, le prime delusioni. I
liberatori, tanto attesi, tanto desiderati, tanto invocati ed
esaltati, non erano giunti da nemici, ma neppure da amici. Non
erano giunti, ad ogni modo, come molti ritenevano, apportatori,
senza riserva, di benessere, di giustizia, di libertà. I metodi,
che usavano, non erano più quelli tedeschi, e vero; ma sotto il
sorriso, sotto l'amabile cortesia si intuiva, si sentiva
l'avversione, con cui consideravano, in quel momento, le nostre
cose e le nostre persone.
[81] Sembrava, talvolta, che si compiacessero dei dissidi, di quella
lotta di caste e di partiti, che concorreva ad aumentare la
confusione, la nostra disgregazione. Quando dalle beghe, dalla
nostra leggerezza potevano essere molestati, non esitavano ad
emettere, nei nostri confronti, giudizi e provvedimenti non certo
a noi favorevoli.
Il popolo, il buon popolo teramano, al quale in taluni momenti
mancava anche il pane, osservava, ma anche commentava i fatti con
quel suo buon senso, con quel suo acuto spirito, con quelle sue
espressioni, che avevano in sè la vivezza, la forza del sarcasmo
e della verità.
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