Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)



Azioni senza controllo

[82] In ogni movimento vi sono da fare osservazioni, che possono tornare di utile insegnamento. Anche nelle manifestazioni che seguivano la partenza dei Tedeschi da Teramo, accadevano fatti degni di studio.
Il suono a distesa di campane, lo sventolio festoso di drappi e di bandiere, i canti nei cortei rumorosi, le processioni nei santuari, nella loro bellezza e nel loro significato, potevano pure commuovere. Ma accadevano altre cose, che molto turbavano.
I reduci della montagna, o quelli che si presentavano come tali, se avessero saputo conservare la padronanza di sè, in un momento così delicato per l'ordine pubblico, si sarebbero potuti rendere maggiormente benemeriti. Non vi erano da compiere qui atti punitivi, poichè gli elementi che, in qualche modo, si potevano ritenere compromessi, si erano allontanati. Ma nella solenne ubriacatura, dl cui quasi tutti parevano colpiti, neppure essi sapevano mettere un giusto limite alle loro azioni. Parlo s'intende, di gregari, avendo i Capi saputo generalmente conservare con prestigio il proprio posto.
Concorreva ad aumentare la confusione altra esaltata gente, che nulla aveva a che fare con i partigiani, la quale, con fucile imbracciato, con vistoso fazzoletto rosso al collo , con cappello a sghimbescio, correva affannata da un punto all' altro della città. Correva, tra gli applausi di altra agitata turba, contro un nemico che esisteva soltanto nella propria annebbiata mente.
Gente vacua, senza dubbio, non responsabile dei propri atti. Ma ad essa s'accodava, non si sa per quale altro abbuiamento mentale, gente di altra tendenza, di altra educazione, di altre aspirazioni. Gente matura, sempre vissuta in uno stato di agiatezza, nell' amore della famiglia, nel timore di Dio. Anch'essa, con la brava coccarda rossa all'occhiello, armata di nodoso randello, appariva non meno accesa di bellicoso donchisciottiano furore.
[83] Non mancavano quelle altre bennate persone, che in altri tempi non lontani, in altri cortei, con altri distintivi, non si stancavano d' approvare e d' applaudire in prima linea.
Innocue debolezze dell' umana natura! Ma non mancava, purtroppo, in tanto trambusto, l' affioramento dello spirito del male, in malefica funzione. L'uomo, che traeva da quel disordine l'incitamento alla vendetta, ricercava l' uomo, lo malmenava, lo arrestava. Nella generale demenza, non frenata dalla forza pubblica, in quel momento paralizzata, si arrestavano, con uguale facilità, l' operaio e il dotto, il povero e il ricco, il professionista ed il sacerdote.

Io vivevo, in tanto smarrimento, senza timore, poichè la mia opera di giustizia e d'umanità, a favore di Teramo e del suo popolo, ed i miei sentimenti, erano da tutti conosciuti. D' altra parte il mio caso, anche dal punto di vista politico, era stato attentamente esaminato e favorevolmente definito dalla Polizia alleata.
[84] Proprio in quei giorni della liberazione si erano presentati, appunto nella mia abitazione, per una visita a carattere politico, agenti della polizia polacca. Dopo aver frugato da per tutto, ritirati documenti ed altre carte, m'invitavano a seguirli nell'edificio della Gioventù italiana, loro sede, per un interrogatorio, da parte di un loro ufficiale. Ivi giunto ero invitato ad attendere in una sala del primo piano. Nel corridoio vi si osservava un largo movimento di gente di incerta origine, di agenti, di soldati. A mano a mano che il sole declinava, quel movimento diminuiva, finiva. In fondo, vicino all' ingresso, erano rimasti, come sentinelle, due soldati armati. Ogni cosa faceva credere che io fossi in istato d' arresto, in attesa di trasferimento. Scendeva intanto la notte, ma quell' ufficiale non giungeva.
Questo ritardo mi preoccupava, non per me, ormai filosoficamente rassegnato a tutto, ma per la mia famiglia, che a quell' ora non mi vedeva rientrare.
L'ufficiale finalmente arrivava e dopo una conversazione molto cordiale, mi congedava con dichiarazione che non sarei stato più molestato, essendo risultata la mia condotta, sotto ogni punto di vista, chiara, onesta, umanamente italiana.
Rientravo in famiglia allorchè, in un vivo orgasmo, si facevano sul mio conto molte supposizioni. A giusta ragione, quando si sapeva che neppure ai galantuomini, in quei giorni, era concesso di vivere in sicurezza.
Non mancavano, infatti, successivamente, da parte di un piccolo disonesto gruppo, capitanato da un un noto bisbetico uomo, atti a me contrari. Egli, a cagione del popolo sofferente e degli sfollati senza tetto, era stato molestato nel mal godimento della sua male amministrata ricchezza. Anche questo signore, di conseguenza, non si voleva far sfuggire la buona occasione per tentare la sua vendetta.

[85] Era stato disposto dalle autorità centrali, per misure precauzionali il fermo dei Podestà capoluogo di provincia, è vero, ma di nomina repubblicana. Un uomo della Questura, aderendo alla congiura, fingendo d'ignorare le favorevoli determinazioni della Polizia alleata, estendeva arbitrariamente anche a me, di nomina regia quella disposizione. Di conseguenza, in uno di quei giorni, mentre, nella piena tranquilla sicurezza, attraversavo la piazza del Carmine, due agenti, che mi si paravano dinanzi, mi invitavano ad accompagnarli in Questura, ove quel galantuomo con il tradizionale ipocrito pianto del coccodrillo, mi dichiarava in istato di fermo e mi faceva condurre, senza neppure poter salutare la famiglia, in quel fabbricato dalle ben ferrate porte.
Nel giungere al carcere, all'ingresso, ero sottoposto a tutte le formalità, stabilite per i comuni delinquenti: trascrizione, nel registro dei criminali, delle mie generalità; ritiro di tutti gli oggetti e di tutti i valori; ritiro delle impronte digitali. Ero così stato servito per la storia nera!
Andando oltre, ero accolto nella camerata n 6, a me assegnata, dalla festosità di una coorte di giovani, di probi cittadini, di onesti funzionari, dai quali ero stato preceduto.
Molta serenità vi regnava, ed ognuno si adoperava a rendere meno uggiosa quella vita. Il poeta dialettale Guglielmo Cameli allietava la brigata con la declamazione delle briose sue poesie. Altri raccontavano novelle, di sapore boccaccesco; altri, episodi pateticamente seri, o graziosamente ameni; altri ancora, rattristando, le bastonature, alle quali erano stati vigliaccamente sottoposti all'atto dell' arresto.
Ad un tale genere di trattamento, che ricordava nefasti tempi, non era stato risparmiato neppure un mite sacerdote, accusato di operosità fascista.
I segni apparivano ancora evidenti, nelle spalle illividite, nelle teste rotte, negli occhi ammaccati.
[86] L' allegra serenità, con cui tali episodi si raccontavano, non riusciva a nascondere la tempesta d'odio, che tumultuava in fondo all'animo dei colpiti.
Io, rassegnato, ascoltavo e tacevo. Ascoltavo ma guardavo intorno, quasi intontito, quasi incredulo dal trovarmi in quel sudicio luogo, in forzato deleterio ozio. Luogo non ancora per nulla penetrato dal soffio del civile progresso.
Il mio spirito attonito, attraversando le nere sbarre e la serena aria, nella quale guizzavano liete le rondini, saliva in quei momenti a trarre conforto in alto; saliva ai magni spiriti, un giorno anch'essi vittime della insensata umana malvagità. Se un dolore mi tormentava era per la mia buona compagna, la quale, dopo aver trepidato per dieci mesi su la mia vita votata al sacrificio ultimo, mi sapeva ora chiuso, senza ragioni, nelle sofferenze di una buia stanza, con lo stesso trattamento del comune delinquente.
Spesso, invero, le guardie irrompevano di giorno nella nostra camerata, per rovistare nei pagliericci, nelle coperte, negli indumenti, sottoponendo i detenuti, anche politici, che dovevano mettersi vicino al proprio giaciglio, a perquisizione personale.
Era sempre vivo nei custodi il sospetto che si potessero detenere o ricevere dall' esterno ordigni, con i quali commettere atti criminosi. Visite avvenivano anche di notte, in ore diverse.
Sul far del giorno, e poco prima della notte, le nostre orecchie erano deliziate dal rumoroso martellamento delle nere inferriate, eseguito per accertarne l'integrità.
Tutto come nei penitenziari più foschi, ricoveri di gente più tenebrosa.
Non sembrava concepibile che vi potessero essere là rinchiuse persone innocenti, dagli onesti mansueti sentimenti.
C'è da augurare che anche in quest'ordine i nuovi tempi portino un soffio di logica, umana modernità.
[87] I giorni passavano così in quel severo regime, ma io non disperavo nella giustizia, che mai manca per gli onesti. Ogni sera le speranze cadevano con le ombre, che malinconicamente s'adunavano nella tetra cella; ma con la nuova alba, con il nuovo giorno, nuove luci sfavillavano nel fondo del buio animo.
Si agitavano intanto a mio favore, tra i primi, i componenti del Comitato di liberazione, che rappresentavano la città in ogni ordine di idee, di dottrine, di aspirazioni.
Non poteva avere la mia onesta opera, a scorno del bisbetico mestatore, premio più ambito.
Peroravano ancora la mia causa, concordemente e fraternamente, presso le autorità, gli avvocati
Pio Mazzoni e Arturo Massignani, il maggiore Luigi Bologna, il capitano Carlo Canger, gli Israeliti, gli sfollati, gli stessi partigiani, tra cui Armando Ammazzalorso, che mi visitava in carcere.
Una vera affettuosa plebiscitaria manifestazione, che molto confortava. Di conseguenza, senza che io fossi sottoposto ad un vero e proprio interrogatorio, con atto di squisita cortesia, il maggiore comandante della polizia inglese, veniva di persona a restituirmi la libertà.
La libertà ! Patrimonio prezioso, diritto sacro, sempre esaltato e benedetto, ma che l' uomo, per la stessa volubile bizzarra sua natura, non è riuscito, nè forse mai riuscirà a godere appieno.
Dalle massicce inferriate avevo considerato commosso lo spazio senza confine. Avevo guardato, con invidia, il contadino che bruciava, nell'aperta campagna, sotto i cocenti raggi del sole di luglio; l' artigiano che sudava, affaticato, nell' infuocata officina; la lavandaia che cantava, nel basso, con le acque del fiume; lo spazzino che si trascinava, in stanchi movimenti, con i suoi attrezzi, su la sua impolverata strada.
Tutti sembravano a me superiori, nella loro libertà, persino i matti, che lavoravano silenziosi nel loro orto agrario, su le rive del Vezzola.
[88] Ma ora anch' io, fuori del tetro fabbricato, ero padrone, signore dello spazio. Mi potevo muovere in qualunque direzione, come volevo, senza essere guardato, senza essere controllato. I rigidi custodi delle chiavi e delle ferrate porte, non avevano più su di me autorità alcuna.
Fuori sostavo alquanto, raccolto nelle mie considerazioni. Il sole piegava al tramonto. In quel recinto, che lasciavo, vi ero stato altre volte, quale Podestà, in benefica funzione. Vi ero tornato nelle grandi feste, a rendere ai rinchiusi, con la parola, poi, ancora con le elargizioni, meno pungente la ricordanza, più ricca per quel giorno la mensa, più viva per il futuro la fede, la speranza.
Vi ero tornato poco prima dei nuovi eventi, per compiere verso gli internati, colà rinchiusi, la stessa umanitaria opera.
Per la bizzarria della incerta vita, vi ero tornato ancora, ma nella stessa qualità di quei beneficati: detenuto.
Casa strana. Non sua, ad ogni modo, era la colpa se in essa si raccoglievano, nelle alterne vicende, le umane sventure La colpa risaliva ai vizi, agli inganni, alla guasta natura dello stesso uomo. Il penitenziario poteva stare là, come un monumento, ad osservare, con uguale filosofia, gli ospiti che vi giungevano e quelli che ne uscivano ospiti qualche volta puri, nella loro innocenza; tale altra macchiati delle più brutte colpe. Ne poteva ancora ascoltare, chiusi nel ferreo grembo, i lamenti e le imprecazioni, i sospiri e le preghiere, ma soltanto per la trascrizione nel proprio doloroso diario. La sua esistenza, che discendeva, come necessaria funzione sociale, con i delitti dai secoli, sarebbe passata con i delitti, per l' umana difesa, nei secoli futuri.
Con queste considerazioni me ne allontanavo, correvo a casa, a confortare innanzi tutto la mia buona compagna, che pregava ancora per la mia liberazione; a confortare, in una vera festa, gli altri familiari, che ad essa facevano compagnia.
E festa era anche tra i miei amici, tra essi gli Ebrei, che correvano numerosi a porgermi il loro affettuoso saluto.


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