Umberto Adamoli
Nel turbinio d'una tempesta
(dalle pagine del mio diario. 1943-1944)



Divagazioni

[89] Tutto il movimento, determinato dalla gioia della liberazione, a mano a mano, si esauriva, finiva nella sua stessa stanchezza. Dopo la festa, anche se prolungata, si riteneva che si tornasse, soddisfatti, al normale lavoro.
Una delle bande, in verità, quella di Felice Rodomonte, con l'iniziare senz'altro l' opera della ricostruzione, ne aveva dato il buon esempio. Il Comandante Armando Ammazzalorso, a sua volta, che godeva molte simpatie, aveva raccomandato, nel ritorno, manifestando nobili sentimenti, calma, ordine, disciplina, lavoro. Ma non da tutti, purtroppo, era ascoltato.

Molti, intanto, facevano una rassegna dei danni, così detti di guerra, ricevuti, ai quali io stesso non ero sfuggito.
A Silvi, la casa del viale marino, rovinata dalle bombe che erano discese dall'alto, era stata spogliata dai predoni, che vi erano giunti dal basso. A Teramo, la casa del viale Crispi, occupata, nonostante la mia qualità di Podestà, dai Tedeschi, era stata frugata in ogni angolo, in ogni armadio, in ogni cassa, in ogni scatola; frugata nei documenti, nelle carte riservate, nei segreti familiari, rispettati in ogni tempo, sacri in ogni popolo.
Vi avevano asportato non soltanto divise, vestiti, biancheria, libri ed altri oggetti, ma anche cimeli, che ricordavano la grande guerra. Tra essi un pantalone, che indossavo in un combattimento, in cui ero rimasto ferito. Conservava ancora, con i fori delle pallottole che mi avevano colpito, le tracce del sangue sgorgato vivo dalle mie profonde ferite.
Non risparmiavano alla distruzione neppure una lettera, colma d'affetto e di benedizioni, ed i capelli santi della mamma morta.
La mano sacrilega era stata allungata anche a due catenine d'oro, che ornavano il petto di una madonnina, chiusa in una campana di vetro. Ma misteriose voci ammonitrici sospingevano l'empio a restituire l'oro votivo, alla defraudata madonnina.

[90] Nel frattempo si accendeva in città, da parte di un'altra categoria di persone, da potersi considerare anche stimate, una vivace lotta per la conquista d'uffici, di imprese e di altri ben rimunerati posti di direzione e di comando.
Nei nuovi eventi, quindi, pur con le migliori intenzioni, nulla pareva mutato nella povera umanità. Erano stati distrutti distintivi, divise, emblemi; bruciati libri, riviste, opuscoli, fotografie; sostituiti nomi di strade, di piazze, di istituti, ma la storia continuava a svolgersi, nell'ordine politico e sociale, con immutata precisione.
Si pensava, quindi, con qualche ragione, che come la borghesia aveva fatto guerra e abbattuto la feudalità non per una effettiva elevazione del popolo lavoratore, ma per sostituirla nei privilegi, nelle ambizioni, nei godimenti; che come il proletariato, conculcato, insorgeva, a sua volta, contro la borghesia, quasi per prenderne il posto; così gli ultimi Italiani, tendevano a sostituirsi, con le loro azioni, negli avvenimenti ancora in atto, agli squadristi, con l'aggravante di mutare la guerra allo straniero, che avevamo ancora in casa, negatore dei nostri diritti e della nostra libertà, in sciagurata guerra fratricida.
Sembrava che, nei torbidi egoismi, nulla più si ricordasse della condotta degli eroi del nostro risorgimento, dei loro forti propositi, dei loro sacrifici, del perfetto accordo nel combattere gli oppressori della patria. Quegli eroi, che una volta ottenuta, in un fiume di sangue, l'unità nazionale, si ritiravano senza chiasso, senza pretese, senza ambizioni. Si ritiravano, con la fierezza del dovere compiuto, nel silenzio della casa, da cui erano partiti, nel raccoglimento del lavoro, dal quale si erano allontanati.
[91] Anche noi della grande guerra, che vivevamo ancora nello spirito di quegli eroi, con le nostre carni lacerate, con il nostro fisico menomato, nulla si chiedeva nel nostro ritorno vittorioso. Mutilati e decorati al valore, per superbe azioni di guerra, vivevano ignorati e silenziosi nella povertà e nel lavoro.
Eppure una di quelle bande, nel tornare dalla montagna, prendendo come insegna la fiera figura di Garibaldi, dimostrava di conoscere a quale altezza si elevasse il Condottiero nel rinunciare, per l'unità e la concordia nazionale, ai suoi grandi ideali politici, alla possibilità di nomina a dittatore del regno da lui conquistato. La condotta di quel grande, che si ritirava, solo e silenzioso, con un sacchetto di semenza, nella solitaria rocciosa Caprera, molto avrebbe dovuto insegnare.
E non soltanto a Teramo! Invece nulla di tutto questo si voleva ricordare. Molti, per benemerenze che non avevano, per atti non compiuti, per sacrifici non sopportati, per sangue non versato, si agitavano, minacciavano, chiedevano e pretendevano riconoscimenti e posti, ai quali non avevano diritto.
Anche i nuovi combattenti, di una guerra non vinta, non si rassegnavano a tornare, come i padri, ai loro campi, alla loro officina, alla loro bottega, al lavoro nobilissimo, del quale prima serenamente vivevano, dal quale erano partiti.
Non tutti, però, per fortuna. Quelli che avevano combattuto con fede e ardore; che avevano lasciato, sulle terre gelide russe, o sulle sabbie infuocate africane, il loro sangue, brandelli della loro carne; che, senza loro colpa, erano stati catturati e trascinati in tristi campi, guardati da selvaggi, nulla chiedevano. Tornavano, anzi , mortificati , avviliti da quella disfatta, che non si poteva ad essi attribuire. Ed avevano severe parole per quella casta avvolta da sinistre ombre; parole di fuoco, che molti non intendevano.
Ma andiamo avanti!

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