Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     "Sogno? Bene! Così anche il cuore dell'abate mancato si è lasciato adescare dal tenero vischio" osservò Titta Colranieri. "Tutti uguali su ciò gli uomini. Disdegnano, ricusano, disprezzano, magari, e poi... cascano in rete. Dove e come si è accesa la bella fiamma?"
     "A Mosciano, al tempo dell'indulto"
     "Ed ora?"
     "Vi è tra noi, a mezzo di persona fidata, scambio segreto di lettere, ma essa ignora chi io mi sia. Non potrà, senza dubbio, non rabbrividire quando saprà di essere stata in amorosa corrispondenza con un bandito."
     "E perché?" Interruppe Titta. "Sono un po' tutti banditi, o in un modo o nell'altro, su questa terra. L'impresa, certo, non è facile. Nessuna donna, anche non nobile, anche non ricca, è disposta a unirsi, per la vita, a un uomo che vive fuori delle comune leggi. Non si può in verità non sentire ripugnanza d'intrecciare candide mani, con mani lorde di sangue."

     "Come lorde di sangue!" Esclamò Santuccio di Froscia, che intervenne nella discussione. "E i re, gli imperatori, i condottieri e tanti altri, con gli odi, le passioni, le ambizioni che conducono alle guerre sterminatrici, non hanno forse le mani lorde di sangue? Alte ragioni di Stato e dinastiche giustificano le loro carneficine. Sta bene. Anche le nostre azioni, allora, possono trovare giustificazioni nelle nostre leggi, nei nostri diritti di uomini liberi.
     Essi d'altra parte, per sostenersi, impongono balzelli senza senso di giustizia. Noi, per la nostra esistenza, chiediamo tributi soltanto ai ricchi, non sempre a posto con le leggi morali.


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Umberto