Giuseppe Di Febo
Psicopedagogia dell'umorismo


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     Del resto anche illustri personaggi che nella vita hanno riso pochissimo come Leopardi (26, p. 4391), tenevano il riso in seria considerazione. Forse l'aristotelico "Animai ridens" caratterizza la specie umana anche meglio del generico "Homo sapiens".
     Bergson (4, p. 4) osservava che solo l'uomo ride e solo l'uomo sa far ridere: ridens e ridiculus insieme è dunque l'uomo, e il senso dell'umorismo è pertanto cosa del tutto sua.
     D'altra parte è fuori dubbio che ride solo chi parla: soprattutto chi sa parlare a tal punto da saper giocare con le parole oltre i limiti dei significati correnti degli usi normali. E poiché parola e pensiero sono inseparabili, si comprende come rida solo colui che non subisce le cose ma le domina con il pensiero. L'uomo è infatti l'unico animale capace di ridere in quanto capisce la differenza tra le cose come sono e come dovrebbero essere.
     Ma c'è ridere e ridere. Si direbbe infatti che quel tipo di riso che è proprio dell'uomo non sia appannaggio di tutti gli uomini il che accende in proposito nuovi problemi.
     Il ridere dell'umorista è fine e pensoso; non può confondersi con la risata chiassosa del comico e del grottesco o col sorriso beffardo dell'ironia. Si direbbe che sia fortemente congiunto all'intelligenza anche se non tutti gli intelligenti sono umoristi. Non ride chi sia solo capace di pensare geometricamente il mondo o chi troppo prediliga il campo delle certezze assolute. Non ride chi alla lucidità dell'intelligenza non congiunga creativamente la finezza dell'intuizione.