GIOVANNI - Uno ve ne vorrei raccontare, il più vivo, anche a mio sollievo.
CARLO - Vi ascoltiamo, con le migliori disposizioni di spirito. Le confessioni, fatte a persone degne di riceverle, arrecano sempre conforto.
GIOVANNI - E sia. Se oggi mi dicessero: "Andate. Siete libero". Risponderei, senza un attimo di titubanza: "Grazie, ma resto". Così risponderei, che questo è ormai il mio mondo, fuori del quale non saprei più vivere, né di conforto mi sarebbe la pietà che potrei destare con la mia età cadente, tinta di sofferenze.
FRANCESCO - Senza dubbio, penoso sarebbe il vivere nella tumultuosa vita di oggi per chi ne fosse rimasto lontano per tanti anni. Ma non era questo che noi chiedevamo.
GIOVANNI - Ho detto ciò per dire che oggi non penserei più ad una evasione. Non era così quando fresche erano ancora la memoria, le attrattive, le lusinghe del mondo, dal quale ero stato tolto. Allora, appunto, mentre mi trovavo nell'isola di Procida, mi venne in mente di tentare una fuga.
CARLO - Evadere dal penitenziario di Procida! Idea pazzesca.
GIOVANNI - Senza dubbio. Eppure una notte io ed altro compagno, da me istigato, tentammo di attuare il folle progetto. Usciti, con diabolica astuzia, dalle ferree sbarre della cella, iniziammo il fatale cammino. Lugubri, nell'oscurità, risuonavano i passi e i richiami delle sentinelle, che vigilavano sugli spalti. Giunti, con il cuore in tumulto, sul ciglio ultimo del massiccio baluardo, con le lenzuola ridotte a funi, tentammo la discesa verso il mare, che mormorava di sotto, con voce di pianto.
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