Umberto Adamoli
LA VOCE DELLE CARCERI
(Atto unico)


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     (Pausa. Sul viso del narratore è visibile l'angoscia che scuote il suo animo)

     FRANCESCO - Dopo?

     GIOVANNI - Dopo accadde ciò che doveva accadere.

     CARLO - Pazzesco, ripeto, quel tentativo.

     GIOVANNI - Infatti, la sentinella più vicina, avvertita la nostra presenza, lanciò l'allarme. Movimento furioso di soldati e di guardie, ovunque; spari di fucile; spari di cannoni; urla di sirene. Un vero finimondo.

     (Pausa)

     FRANCESCO - (con ansia) E poi?

     GIOVANNI - Un'altra scena della tragedia in atto era stata conclusa.

     CARLO - In che modo?

     GIOVANNI - Lo sventurato mio compagno, precipitato dall'alto della rocca, era raccolto senza vita, dalla pietosa onda del mare.

     CARLO - E voi?

     GIOVANNI - Ne uscii vivo, ma con una nuova condanna e con il tormento di un'altra ombra nell'anima, tinta di sangue.


     CARLO - (con viva pietà) Povero nonno! Nessun conforto vi giunse mai, in questa espiazione perpetua??

     GIOVANNI - Dicono che qualche volta gli angeli, con le loro visite, si ricordano dei condannati alle pene del purgatorio. Quando ero a Cagliari, poiché lavoravo in una colonia agricola, mi vidi fissare da un vicino campo, come un angelo, da due occhi profondi, d'una bellezza sarda. Un raggio caldo di sole, su una fredda palude. Raggio benefico, ma spento subito dopo dal trasferimento in un altro isolato luogo di pena.
     Ma nei miei abbattimenti ripensavo e ripenso ancora, sia pure mestamente, a quei due occhi, luminosi di dolcezza.
     Conforto mi era dato, in un'altra residenza, dal ritorno festoso, in ogni primavera, delle rondini, che nidificavano nel cornicione del nero edificio. Festa, il ritorno; festa la laboriosa permanenza; triste, nell'umido autunno, la loro partenza. Pareva che portassero con sé, nella loro emigrazione, una parte del mio animo.


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Umberto