Quanto accadeva a Mosciano, accadeva pure a Cellino, a Campli. Ma Santuccio a Campli trovò un valido aiuto nel reverendo don Marzio, zio della forte Barbara. Anche i banditi erano uomini. D'altra parte chi avrebbe osato opporre un rifiuto alla loro richiesta? Introdurre simili personaggi poteva costituire, finalmente, nelle tre famiglie, elementi di sicurezza. Concorrevano a far vincere gli ultimi scrupoli le tre giovani, che ragionavano soprattutto con i diritti del cuore.
E le nozze, successivamente, si celebrarono come nozze di felicità.
CAPITOLO QUINTO
Le autorità di Teramo, da tre anni tranquille, erano di nuovo turbate: il bandito Salvatore Bianchini, dopo la partenza per Napoli del vicario Porzio Aniello, era tornato, con i suoi uomini, alla montagna.
Anche se facinoroso, sentiva il rimorso dei sette compagni offerti, in un momento di smarrimento, al capestro della vendetta. Era vero che tanto Sciacqua di Montepagano quanto Carlo Vitelli avevano tenuto, nei confronti delle altre bande, una condotta di sopraffazione; ma era anche vero che trattandosi di compagni di lotta e di pericoli si sarebbe dovuto tutto perdonare, cercando con l'aiuto del padre Fulgenzio di ristabilire con essi buone relazioni.
Ogni qualvolta poi che s'avvicinava alle sette porte gli pareva di vedere ghignare al palo, con sguardo torvo di sangue, i sette impiccati e gli pareva d'udire con voce di tomba: - Traditore! Vile! Vendetta! Vendetta! -
Tornava indietro spaventato, depresso, senza che potesse liberarsi dalla terribile visione. Decideva di fuggire da quel luogo maledetto, e una notte i teramani intesero un insolito movimento di persone nella strada, calpestii affrettati, voci sommesse. Non erano tranquilli anche se ben chiusi nelle case. Non s'era mai sicuri, in nessun posto, in quei torbidi tempi. Cessarono a una certa ora i rumori; non cessarono le preoccupazioni. Si rinfrancarono quando, all'alba, la campana maggiore del Duomo suonò l'Avemmaria. Ma a giorno fatto s'avvidero che la banda di Salvatore Bianchini non vi era più.
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