Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     Tutti però questi banditi avevano avuto il merito di tenere acceso lo spirito bellico e l'orgasmo nei nemici d'Italia.
     L'ineffabile Torrejon, nei suoi rumorosi festeggiamenti, non aveva capito che la vittoria su di essi non era dovuta al suo talento, né al valore delle sue truppe. Nei giorni seguenti, quando gli parve che tutto era tornato normale, in una nuova riunione, con ipocrita compunzione disse che tutto quanto era accaduto nella bella provincia non era stato di gradimento né di Napoli, né di Madrid. Il suo signore intendeva ridare alla contrada, da secoli tormentata da faziosità partigiana, l'antica prosperità. A queste nobili intenzioni si era contrapposta, appunto, la cancrenosa piaga del banditismo, ora, con una energica operazione chirurgica, sanata. I banditi tra poco se ne sarebbero andati e la prosperità sarebbe tornata ovunque a fiorire.

     Tante altre cose piacevoli disse il Preside, senza che si elevasse una voce a turbare la sua gioia.
     Il buon de Adamnis, liberato dal carcere, raggiunse di corsa la sua casa, dove si pregava e si soffriva. Nei giorni successivi egli tornava a raccogliersi in sé e meditare sulle vicende umane.
     In tanta depressione, come dichiarava alla compagna, non disperava in un futuro migliore. La storia, con i suoi ricorsi, come insegnava a Napoli, proprio in quei giorni, il giovane filosofo Giovan Battista Vico, era inesorabile nell'attuare tra i popoli i cicli di grandezza e di decadenza.
     I rinnegatori, i traditori, gli asserviti allo straniero, sarebbero stati travolto senza pietà dalle legioni rimesse in marcia, con spirito romano, sulla via del mondo. Lo sentiva, lo vedeva con la sicura chiaroveggenza dei profeti. I falsi santuari, pieni di furfanti, sarebbero caduti sotto il peso della propria miserabilità.


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Umberto