Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     La fiducia riposta in noi da Venezia non è stata né sarà delusa. Le imprese più difficili sono state e saranno sempre a noi affidate. D'altra parte la Serenissima, in ogni occasione e nel modo più largo, ci manifesta la sua gratitudine.
     Compiute vittoriosamente le operazioni di Grecia e di Macedonia avemmo l'ordine di tornare verso la Dalmazia, ove trovammo Santuccio. Anche lui con la sua banda aveva condotto azioni vittoriose contro le brigantesche orde turche-slave, sui monti Dinarici. Ora siamo qui in attesa di altri ordini. Titta è stato inviato a Traù, altra gentile cittadina dalmata, dal puro sangue italiano.
     Santuccio e io facciamo frequenti salite su queste alture per spingere lo sguardo e il desiderio verso voi che siete di là dal mare, di fronte a noi. Parliamo sempre con rimpianto delle nostre case, delle nostre montagne dove forse non torneremo più. Non siamo nati per vivere in ischiavitù.

     Penso con nostalgia ai nostri figli, che non sono più bambini. Penso pure se non sia il caso di collocarli, per le loro educazione, in seminario, come ha fatto Titta per il figlio Giuseppe. Io non sono scontento di esservi stato. Studiare in seminario non significa vincolarsi al sacerdozio.
     E' piacevole e utile possedere una coltura. E' vero che al segno di croce che il Doge di Senarica apponeva agli atti il cancelliere aggiungeva: - Non sa scrivere perché galantuomo. - Ma si può saper scrivere ed essere galantuomo. Non si deve esagerare sui pregi dell'ignoranza. A me sembra come se si vivesse, in tale stato, in una eterna notte. Se fossi analfabeta come tanti altri non avrei oggi la gioia di mettere su questa carta le mie idee, le mie pene, la mia passione. Nel raccoglimento di questa mia cameretta è come se io stessi a conversare, mentre scrivo, con te e di sentire la tua voce, il tuo respiro, il tuo profumo quasi la tua carezza.


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Umberto