"Negli antri dei monti", rispose Giulio. "Non ne escono che di notte, con i lupi, e assaltano, predano, uccidono. Ne abbiamo anche noi, in questa nave, pronti a mettere fuori gli artigli."
"Carico pericolo, dunque, il mio, questa volta."
"Si, non per voi, ma per i nemici di Venezia, per i tormentatori d'Italia."
Quando, attraverso le tante isole, le galee entrarono, con vento favorevole, a Sebenico, il sole era già alto. Le bande di Santuccio e di Giulio, dalle brune divise e in assetto di guerra, scesero tra due ali di popolo plaudente. Le ragazze, sempre prime nelle patriottiche manifestazioni, distribuirono, gioiose, fiori e sorrisi.
Dopo il saluto delle autorità, poiché non vi era da perder tempo, le bande ripresero il cammino verso la zona minacciata di Citelut. Vi giunsero a buona andatura quando gli infedeli, con preponderanti forze, stavano per vincere le ultime resistenze. Vedevano già, i novelli unni, aperte le vie per la discesa trionfale verso la pianura dalmatica. Vedevano le linde cittadine, ricche di oro e di monumenti, da saccheggiare. Erano, sulle raggiunte cime, festanti, quando si lanciarono su di essi, da ogni parte, come folgori a ciel sereno, i lupi del Martese.
Spari d'archibugi, suono di corni, urli, rumori di percosse, violenti tafferugli, lamentevoli rantoli.
Le unghie dei lupi si conficcarono spietate nelle gole degli orsi. Dopo una disperata resistenza, i maomettani erano ricacciati, disfatti, in fondo valle. Ma avendo molte riserve, il giorno dopo, con nuove truppe, ripresero la salita. Sul tramonto, in vista del campo di lotta, il comandante dispose per la sosta notturna. Sull'alba, dopo il riposo, si sarebbero lanciati al nuovo assalto, sicuri del successo.
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