Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     "Forse no. Ormai siamo un po' figli anche della laguna. Noi che abbiamo avuto da Venezia la nostra seconda vita non possiamo tradirla. D'altra parte anche la terra di San Marco è terra italiana. Le nostre famiglie, finita la guerra, verranno a godere con noi le gioie della pace."
     "Bello il sogno. Ma non mi posso adattare, Santuccio, all'idea che non debba più rivedere profilarsi al mio sguardo, con la maestosa testa, il paterno Gran Sasso, né più udire la voce dei nostri boschi, il canto dei nostri fiumi. Non è possibile. Sono troppo profondamente impressi nel mio cuore i santi luoghi della nascita e della fanciullezza, avvolti si da ombre ma anche da divine luci.
     Un nero presentimento, dall'altra parte, mi dice che finirò come il buon Centiolo. Quanti lieti sogni allietavano la sua giovinezza. Che ti disse mentre si spegneva la vita?"

     "Tante cose con un fil di voce. Chiuse la sua esistenza con la più gentile e santa delle parole: mamma.
     "Anch'io tra non molto invocherò i nomi, a fil di labbra: Mamma, Cinzia!"
     "Scaccia una buona volta questi pensieri."
     "Ma non posso scacciare la colonna di fuoco del mago di Nepezzano."
     "Dimentica questo maledetto stregone che tanto ha conturbato, con le sue fantasticherie, il tuo vivere."
     E tante altre cose si dissero i due amici, anche in relazione ai nuovi combattimenti che si sentivano ormai vicini. Dopo, Santuccio, tornò sul monte San Giovanni, non lontano, affidato alle sue armi.



     Calava intanto la notte ampia, solenne. Ai rumori della luce si sostituivano, a mano a mano, i rumori delle tenebre che uscivano dai boschi, che salivano dalle valli, che discendevano dalle cime. Si sentiva, nell'oscuro avvolgimento, il distacco, quasi, dalle cose terrene; si sfiorava quasi, con i sensi tesi, il mondo ignoto del mistero. Pareva che le stelle, con il vivo scintillio, nel profondo cupo del cielo, parlassero agli umani la voce dell'eternità.


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Umberto