Anche i cittadini lo scansavano. Vi erano già state, per essersi confidati con sornioni forestieri, dolorose sorprese, con arresti, condanne, deportazioni.
Non poteva continuare in quella vita, che viveva tra molte diffidenze e senza scopo. Pensava, quindi, di tornare alle sue montagne, per riprendervi, a qualunque costo, anche della vita, il suo posto di combattimento. Quando, però, sapeva che anche ad Aquila si cospirava per spezzare le catene della schiavitù, per riconquistare l'unità e la libertà, rinunciava alla partenza. E a mano a mano che ne penetrava i segreti, aumentava per quel popolo la sua simpatia, la sua ammirazione, maggiormente quando sapeva che da esso erano state tentate molte insurrezioni, spente nel sangue. L'ultima, che risaliva alla primavera del 1841, era fallita, non per colpa degli Aquilani, ma per il mancato concorso, promesso con solenne impegno, dei congiurati delle vicine province e della stessa Napoli. Vi era caduto, però, il Comandante militare borbonico, degno rappresentante dei tiranni d'Italia.
Dopo di ciò, il lombardo, che aveva ormai rivelato ai nuovi amici la sua vera identità, chiedeva ed otteneva di entrare a far parte del nobile movimento meridionale.
In tali nuove condizioni si giungeva ai primi di luglio. In una di quelle sere, dopo un tramonto, dietro alle montagne, rosso di sangue, molti di quei giovani, tra cui l'Adamoli, per vie diverse, alla spicciolata, dalla città si dirigevano verso il piccolo villaggio di Tempera, situato a cinque chilometri, sulle rive del fiume Vera, breve di corso, ma ricco d'acqua, di verde, di poesia. Vi giungevano quando su l'abitato, in un cielo stellato, sovrastava alta la notte, alto il silenzio. I cospiratori nobilissimi s'andavano a raccogliere, come d'intesa, nei locali di una fonderia, di proprietà dell'industriale Domenico Strina. Tra i convenuti vi era, anzi, un suo figlio, ingegnere Isidoro.
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