Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     E così via. Anche le considerazioni dell'altro segretario, che pure lui malediva la squallida terra dei briganti, non erano molto diverse.
     Il vicario, per la sua dignità, nulla diceva, ma non poteva anche lui non maledire, in cuor suo, il vicerè che, nel chiamarlo, gli aveva detto:
     "Affido a voi un incarico non facile, ma onorifico e ricco di promesse. Abbiamo nel vicereame una provincia, Teramo, quasi ribelle, infestata da banditi. Voi, senza dubbio, ve ne riconosco le qualità, restituirete a quella provincia ordine, tranquillità, disciplina. E ne avrete il premio. Fra tre giorni dovete partire e giungerete, vedrete, vincerete".
     Con questa e con altre sibilline parole era stato licenziato.
     Ed ora che si trovava là, sul confine del misterioso territorio, dinanzi ad eventi senza luce. Partire, giungere, vincere! Magnifica rievocazione storica. Ciò poteva essere concesso a Cesare, sublime genio latino, non a lui, povero comune mortale, che non desiderava che di vivere, in una placida vita, nello splendore di quella natura, nella quale aveva avuto la fortuna di nascere.

     Anche se fosse stato assistito dalla fortuna del viaggio, a Teramo, città maledetta, lo aspettavano i banditi. Vi erano a proteggerlo, come aveva inteso a Napoli, le valorose truppe spagnuole. Valorose! Poteva, poi, egli italiano, ordinare o consentire ai massacri d'italiani? In qualunque modo la quistione si esaminasse, appariva sempre nera. Tornare indietro, con un pretesto qualsiasi, significava farsi fucilare; andare avanti, farsi impiccare.


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Umberto