Il giorno dopo, come sospinti dalla fatalità, i tre ripresero il viaggio. I segretari, prima di muoversi, avevano cercato, nella chiesa del luogo, di fronte all'eternità, di mettersi a posto con l'anima.
Sino a Castel di Sangro le cose non erano andate tanto male. Il diavolo non si era presentato così brutto, come era stato dipinto. Il diavolo, però, riprendeva la sua classica figura in una gola, nelle vicinanze del piano delle Cinque Miglia.
La neve, in un cielo plumbeo, intensificava la caduta; la bufera, che urlava sinistramente, la violenza. La nostra brigata, avvolta da furiose raffiche, pareva che stesse per essere trascinata, con tutta la diligenza, in fondo ai burroni. Ognuno, in quel finimondo, invocava l'aiuto divino.
Calava già la notte quando la brigata giunse, tra la vita e la morte, a Roccaraso, gruppo di nere case, sepolte quasi dalla neve. Non vi era per alloggio che una stanzaccia, in uno di quei miseri abituri, con mobili sgangherati e letti dai duri pagliericci.
All'urlo della bufera pareva s'unisse fuori l'urlo dei lupi e di spiriti folli, scatenati dall'inferno.
I tre, rannicchiati accanto a un grande fuoco, unico conforto in tanta desolazione, pensavano come mai, nella vastità del mondo, quella gente si fosse ridotta a vivere, come lupi, in tanto squallore.
Ripresero il cammino, come Dio volle, e dopo altre peripezie giunsero, finalmente, nella capitale dei pretuziani.
Capitale! I segretari, del miglior sangue partenopeo, nel vederla, si domandarono se valeva proprio la pena d'inviare a vivere tre galantuomini in un simile paesaccio. Non tutte le città potevano possedere, come Napoli, il vasto golfo, le colline ridenti, l'aria azzurra, era vero; ma sdegnava sentir chiamare città uno squallido borgo, essendo misere le strade, anguste le piazze, scalcinate le case, nere l'aria, squallida e malsicura la vita. E per maggiore afflizione nulla capivano del linguaggio, degli usi, del carattere di quella gente, pronta a risolvere tutte le quistioni con i coltelli alla mano.
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