Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     Tra tanta poesia non mancava di risuonare, da sulle alture, in cima alle rocce, il sinistro verso della cornacchia.
     Ma i bravi soldati di Spagna, occupati come erano nell'allegra manovra delle mandibole, non vi facevano caso. Qualche frizzo però non mancava e qualche rammarico per dover tornare in città, dopo tante vanterie, senza la testa di un bandito.
     Godevano a ogni modo di quel riposo e di quel pasto, quando un rumore, come di passi, fece loro trattenere il respiro. Si guardarono con un certo sgomento. Stavano per alzarsi, quando i padroni della montagna furono ad essi addosso, da ogni parte, furiosamente. Breve la lotta, completa per gli iberici la sconfitta.


     Mentre a Teramo si teneva consiglio sulla disfatta, a Frondarola, dove le bande erano discese, si discuteva sul da farsi. Qualcuno dei capi, i più accesi, avrebbero voluto proseguire la marcia verso la città; altri, i moderati, erano contrari. In questa discordanza di pareri, la discussione diveniva vivacemente pericolosa tra Sciacqua di Montepagano e Giulio Montecchi.

     "Nessuna minaccia ha mai fatto deviare me e i miei amici, tra cui il prode Carlo Vitelli, dalla strada tracciata. Quel che ci siamo proposti di fare domani faremo" diceva il primo.
     "Voi non lo farete" rispondeva il secondo", o non siamo più noi."
     "Noi lo faremo, qualunque ne sia il prezzo."
     Stavano quasi per venire alle mani, quando comparve padre Fulgenzio, cugino di Titta, che viveva molto vicino ai banditi.
     "Non va bene questa vostra condotta, figliuoli" egli ammoniva. "Un conflitto tra voi condurrebbe alla vostra rovina. Non aspettano altro i vostri nemici e ne avete. Una volta scompaginati, vi salterebbero addosso per il colpo di grazia. E' ormai assioma antico che l'unione fa la forza e i romani ben lo sapevano.


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Umberto