Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     Quando il Doge si ritirò il popolo e le gaie ragazze dai capelli biondi si avvicinarono per manifestare ai giovani, con il musicale dialetto, la loro simpatia.
     Nella calca un gruppo di persone cercò di farsi avanti; persone che parlavano veneziano e ne avevano i modi, ma non la fisionomia. Si dichiararono discendenti da abruzzesi, rimasti dopo le vicende belliche al servizio della Serenissima. Uno di essi vantava come bisavolo un cugino di Marco Sciarra. Presentò una robusta figliuola che aveva bene armonizzate, in sé le caratteristiche delle due razze. S'avvicinò a parlare con essa un giovane discendente anche lui, in linea materna, dalla famiglia degli Sciarra.



     Da tre giorni i montanari godevano la festevole ospitalità di Venezia. I giovani nati nelle rocce molti idillii avevano intrecciato con le fanciulle nate nelle onde.

     Santuccio, per le cognizioni acquistate in seminario, qualche idea aveva su l'arte; ma dinanzi alle marmoree costruzioni e al potere magico dei pennelli, dai quali erano uscite le classiche deità, conservate nelle pinacoteche, rimaneva come smarrito.
     Così Santuccio mentre il giovane Centicolo si ingentiliva con la graziosa parente.
     "E' ben diversa la vita che si vive nella mia terra, cugina. Bello è l'oro, belle sono le trine, le gemme che incastonano le facciate, le logge, le merlature dei fantastici palazzi. Belle sono pure le nostre montagne, grandi più di tutte le torri, di tutti i campanili, di tutte le isole messi insieme. E le valli sono più ampie dei vostri canali, le strade più larghe delle vostre calle. La vostra piazza San Marco, che ha pure tante meraviglie, è povera cosa di fronte alle nostre valli fresche di acqua, ai nostri boschi freschi d'ombre, alle nostre campagne ricche di prati, di fiori, di arbusti."


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Umberto