"Potrei anche sopravvivere. Che interessa a te la mia vita? Pur discendendo da uno stesso ceppo, non vi è più parentela tra noi. E' stata estinta dal tempo."
"E' vero. Vi è però sempre un po' dello stesso sangue nelle nostre vene. La parentela che langue potrebbe, però, essere richiamata in vita. Talvolta, senza sapere il perché, mi viene in uggia la laguna. Talvolta odo in me strane voci, strani richiami, come se uscissero dai monti, dalle valli, dai boschi."
"Dopodomani partiremo, bambina e tutto sarà finito. Andremo in Dalmazia a unirci, nel territorio di Citelut, agli altri nostri compagni per sbarrare agli infedeli la via di Venezia.
La quercia dei nostri boschi non piega sotto l'infuriare dell'uragano. Noi, figli della quercia, non piegheremo, con Venezia nel cuore, sotto la brutale forza maomettana."
"Se è così, siate benedetti da Dio. Noi aspettiamo."
"Con questa gentile espressione, come di buon augurio, chiudiamo il nostro discorso, che i corni chiamano a raccolta."
E si lasciarono.
Prima di partire da Venezia Santuccio e molti dei suoi parteciparono, per desiderio del Doge, a una serata di gala nel teatro San Beneto, il maggiore della città. Quando entrarono, accompagnati da una guida, ebbero un senso smarrimento. In un castello incantato pareva che fossero, non in un pubblico ritrovo. Nei palchi cesellati e dorati non figure umane apparivano, quelle che vi erano, ma deità fastose delle mille leggende. Chiome d'argento incorniciavano i visi d'avorio delle dee, gli occhi delle quali sfavillavano dietro una mascherina nera, che per metà copriva il volto. Abiti di broccato, di foggia strana, avvolgevano i loro corpi flessuosi. Gli uomini, dalle argentate parrucche e dai visi sbarbati e incipriati, erano poco dissimili dalle donne.
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