Umberto Adamoli
I BANDITI DEL MARTESE
(Romanzo storico)


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     "Tornate, tornate presto e vittoriosi", si gridava da terra.
     "Torneremo", si rispondeva dal mare, "e vi porteremo la barba di Maometto."
     Quel naviglio lasciava Spalato che era già notte. Notte serena, vivida di stelle. Soffiava un venticello piacevole che increspava le acque, gonfiava le vele.
     Nessuna preoccupazione, in quella truppa, per i prossimi eventi. Dopo qualche canto scendeva essa tranquilla di sotto, per il notturno riposo.
     Santuccio e Giulio, rimasti a poppa, osservavano silenziosi l'andare delle galee: andare che aumentava con l'aumentare del vento. La ciurma, non essendo necessario l'uso dei remi, anch'essa riposava tranquilla.
     "Perché non parli Giulio? Quali pensieri ti turbano?"
     "Non sono tranquillo, Santuccio. Io non credo ai sogni, belli o brutti che siano. Eppure nella decorsa notte feci un sogno che mi ha non poco scosso. Questa volta certo la nostra impresa è ardua. I turchi, quando vogliono, sanno combattere con il loro fanatismo e con le loro barbariche orde. Usciremo dalla nuova prova senza dubbio vittoriosi. Ma... quel sogno... Non è che io abbia paura di morire...

     Ti ricordi, Santuccio, la notte di Campli? Quanti eventi da allora! Quella notte, già tanto lontana, torna a me con il riso e con il pianto della divina anima innamorata.
     Povera Cinzia! Meglio per lei se io avessi continuato lo studio per la tranquilla vita sacerdotale. Ora? Il romanzo continua. Non sono superstizioso, te lo giuro, Santuccio; ma quel sogno, che mi rese angoscioso il sonno, mi pesa terribilmente sull'anima."


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Umberto