I contendenti vegliavano con gli abiti bagnati di acqua e di sangue, con le orecchie aguzze, gli animi tesi.
Vegliavano, ma in quella tenebrosa tregua pensavano, non senza pena, che la grifagna falciatrice trovava la pił larga collaborazione nella stessa follia degli uomini.
Eppure alto inno s'elevava alla morte incontrata, nella primavera degli anni, in difesa d'un ideale. Bello era invero morire, come lą si moriva, per ubbidire alle leggi sante della razza e della patria.
La notte intanto seguiva imperturbabile il suo corso. Le stelle nascevano e tramontavano, mute, nel loro eterno movimento.
Sorgeva l'alba. Alle prime faville dell'aurora i pretuziani, riordinati, con nuove energie, con nuovo furore si lanciarono sui maomettani.
Si riaccese sui tre monti feroce la lotta, che a mano a mano diveniva quasi individuale. Chi per un momento era costretto ad arretrare, tornava avanti con nuovo furore. Chi cadeva, anche se sanguinava, anche se mortalmente colpito, si rialzava per l'ultimo sforzo. Tutti gli episodi si risolvevano, ormai, tra urli e bestemmie, con le unghie e i pugnali. Ogni senso d'umanitą era sopraffatto dal risvegliato istinto bestiale.
Essendo il disprezzo della morte, il cieco puntiglio, il valore uguali nell'uno e nell'altro campo, si capiva che la lotta sarebbe durata a lungo. Ma all'ultimo in un disperato sforzo, i pretuziani trionfarono.
Alto splendeva il sole quando suoni di corni annunziarono, dall'uno all'altro monte, la vittoria.
E Venezia era salva.
Ai superstiti gloriosi non rimase che compiere il pietoso ufficio di raccogliere i feriti, di dare sepoltura ai morti, avvolti con i fiori della fede, con il verde della speranza.
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